The revolution will not be televised.
The revolution will not be brought to you by Xerox
In 4 parts without commercial interruptions.
[…]
The revolution will not go better with Coke.
The revolution will not fight the germs that may cause bad breath.
The revolution will put you in the driver’s seat.
The revolution will not be televised, will not be televised,
will not be televised, will not be televised.Gil Scott-Heron
La rivoluzione di Tim Berners-Lee e del World Wide Web si annunciava certo meno cruda e violenta di quella cantata da Gil Scott-Heron, ma prometteva la stessa, forte rottura nei confronti dei mezzi di comunicazione che avevano preceduto la rete. Da una parte, la connessione a Internet apriva le porte di una piattaforma di pubblicazione a chi era stato spettatore o lettore di contenuti prodotti secondo logiche e scale di mercato inaccessibili alla grandissima maggioranza delle persone. Dall’altra, l’ipertesto sprigionava associazioni di pagine, nodi e idee fuori dalla linearità e dalla centralizzazione della trasmissione da uno a molti dettata dalla stampa e dalla televisione.
L’avvento del blog, con il quale il Web inizia ad assumere l’etichetta ‘2.0’, rappresenta forse il culmine di una sovversione vitale della gerarchia costituita dei mezzi di espressione e di informazione.
A causa del suo, di blog, Hossein Derakhshan ha vissuto gli ultimi 6 anni della sua vita in una prigione di Teheran. Iniziò, come molti, dopo l’11 settembre 2001: da lettore alla ricerca di spiegazioni, informazioni, notizie alternative al flusso mediatico ordinario divenne autore, invitando altri iraniani a fare come lui. Scrisse guide, condivise tutorial e costruì di fatto una comunità di blog intorno alla quale scrittori in esilio, giornalisti, esperti di tecnologia, politici, religiosi e veterani si scambiavano opinioni e visioni.
Nel 2015 quella comunità non esiste più. I blog non esistono più. O meglio, sottolinea Derakhshan, non esiste più la linfa del blog, che poi non è che la ragione costituiva del Web: il collegamento ipertestuale. Graziato e di nuovo libero di prendere un taxi e navigare nella rete, il blogger si ritrova a spasso in un tempo in cui i social network hanno istituzionalizzato la ‘produzione dal basso’ e svalutato il link fino a renderlo obsoleto.
In Ossessioni collettive. Critica dei social media, Geert Lovink ritiene che l’idea centrale del Web 2.0, ovvero demandare programmaticamente l’ideazione e l’alimentazione dei contenuti agli utenti iscritti alle social app, sia una conseguenza diretta del fallimento delle dot.com travolte nella prima, storica bolla di Internet, dall’incapacità di produrre beni e valori reali. In questo modo, le aziende non guadagnano al livello della produzione, ma al livello del controllo della distribuzione (sia essa hardware che software) delle informazioni, dei dati, degli oggetti, mentre la propaganda del culto del libero e gratuito accesso e utilizzo per gli utenti, dice Lovink, non è altro che la rivincita beffarda delle logiche commerciali spazzate via all’inizio del secondo millennio.
La liberazione dei mezzi di produzione, in altre parole, è un inganno che serve a deviare l’attenzione dal nuovo, vero centro del potere, appunto il dominio algoritmico di che cosa distribuire a chi. Sono Google e Facebook che controllano gli accessi ai contenuti del Web. Sono il page rank e il news feed che decidono quale lista di risultati o notizie o post far visualizzare ai nostri profili. Il setting delle nostre esperienze di navigazione, informazione e conoscenza digitali è delegato a due filtri del tutto esclusi dal nostro controllo diretto.
In questo senso, la forza dirompente e liberatoria del link non può avere spazio. Google ha assunto il collegamento ipertestuale come moneta che paga il posizionamento nella pagina dei risultati della ricerca, ma Facebook, Instagram, Twitter trattano il link all’interno dei rispettivi sistemi di pubblicazione o come mera inclusione di contenuto come un altro (embedding) o addirittura come una funzionalità non prevista. In ogni caso, inserire più di un link in un post, in un tweet è scoraggiato sia dall’interfaccia di pubblicazione che dalle buone pratiche d’uso: la costruzione di un sistema di relazioni, di associazioni e di connessione di idee è possibile solo alle condizioni imposte dalla piattaforma, che sfrutta le nostre scritture e soprattutto le nostre interazioni con i contenuti altrui per elaborare con apparente nonchalance un flusso di informazioni il più possibile in linea con le nostre preferenze. Un canale personalizzato, di fatto, che simula partecipazione e vitalità dal basso quando non fa altro che riprodurre i meccanismi del broadcasting ricostruendo, anche attraverso il mercato delle app e degli smartphone e dei relativi store, barriere di accesso e controllo centralizzato.
Dimenticata l’interattività ipertestuale, ci riconsegniamo a una passività televisiva con l’aggravante di contribuire a consolidarla giorno dopo giorno con la nostra partecipazione. Questa sì, attiva.