
Nella prima parte della storia del Web, almeno fino alla fine degli anni novanta, l’eredità e l’esperienza tipografica, nonché l’immaturità della tecnologia nascente, hanno tanto pesantemente influenzato la tecnica di creazione delle pagine internet da ricreare un connubio inscindibile tra contesto di pubblicazione (il sito) e contenuto, invitando i progettisti e gli autori a incorporare nel linguaggio di marcatura ipertestuale, che serviva a etichettare la struttura del testo, la rappresentazione della forma del documento.
Se si legge il codice delle pagine HTML di quegli anni, vicino ai tag che Tim Berners Lee aveva sinteticamente dedotto dall’SGML e che servivano a descrivere titoli, paragrafi, liste e collegamenti di una pagina, si notano etichette che, contrariamente a quanto indicato nel suo certificato di nascita, davano all’HTML un controllo su font, dimensioni dei caratteri, colori, sfondi e tutto quanto potesse servire a delineare l’apparenza della pagina e, di conseguenza, la sua appartenenza a un contesto specifico di rappresentazione:
<table border=0 width=440 CELLPADDING=”20″> <tr><td width=60><IMG SRC=”http://zeldman.com/dot_clear.gif” WIDTH=1 HSPACE=30 HEIGHT=1 ALT=””></td><td width=340 BGCOLOR=”#0F99C0″> <BR><HR SIZE=7><BR><IMG vspace=1 SRC=”/http://zeldman.com/dot_clear.gif” ALT=” ” width=1 height=1><BR><h1><A HREF=”http://zeldman.com/toc.html” onMouseOver=”window.status=’Core page. More choices.’; return true” target=”_top”><img src=”/http://zeldman.com/gifs/minifrontspiece.gif” width=100 height=143 hspace=14 align=left border=”0″ alt=””></A><FONT FACE=”GEORGIA, TIMES, TIMES NEW ROMAN” size=6>How I <BR>Lost My <BR>Sponsors<BR></font></h1><BR CLEAR=ALL><IMG alt=”dot_clear” vspace=”1″ SRC=”/http://zeldman.com/dot_clear.gif”><HR SIZE=7><BR><IMG vspace=2 SRC=”/http://zeldman.com/dot_clear.gif” ALT=” ” width=1 height=1><BR><FONT FACE=”GEORGIA, TIMES, TIMES NEW ROMAN” SIZE=”5″><B>Disclaimer</B></FONT><BR><IMG vspace=1 SRC=”/http://zeldman.com/dot_clear.gif” ALT=” ” width=1 height=1><BR><FONT FACE=”TIMES, TIMES NEW ROMAN” SIZE=”4″>Within two weeks of writing and posting <A HREF=”/http://zeldman.com/sponsor1a.html” target=”_top”><B>How I Lost My Sponsors,</B></a> the ad banners returned, thanks to some unsolicited <A HREF=”http://zeldman.com/sponsor2.html”><B>letters of support</B></a> and the <B>basic decency</B></a> of the organization which places advertising on my site. <BR><IMG vspace=8 hspace=8 ALT=” ” width=1 height=1 SRC=”/http://zeldman.com/dot_clear.gif”>…For this reason I still publish and invite you to read <A HREF=”http://zeldman.com/sponsor1a.html” target=”_top”><B>How I Lost My Sponsors.</B></a></FONT><BR><IMG alt=”dot_clear” vspace=”4″ SRC=”http://zeldman.com/dot_clear.gif”><BR></TD></TR></table>
Tabelle, separatori, sfondi, immagini trasparenti per simulare margini, selezione dei caratteri e impostazione delle dimensioni: l’applicazione di queste etichette dentro il contenuto depotenziava l’immaterialità digitale delle pagine web, la cui riproducibilità poteva essere attuata solo al costo di una pulizia ‘manuale’ del codice e una successiva ricontestualizzazione in una nuova forma, come, per intenderci, nel caso della nuova edizione di un libro. La porzione di codice riportata sopra, con quei colori, quella impaginazione, quei font, avrebbe un senso di riproduzione infatti solo all’interno dello spazio per il quale quei colori, quella impaginazione, quei font sono stati pensati, a meno che non si abbia in mente un patchwork non solo di contenuti ma anche visuale.
Quando invece grazie ai Cascading Style Sheet (CSS) gli aspetti formali di una pagina web sono usciti fuori dalla sua struttura, il contenuto ha iniziato a essere davvero indipendente dalla piattaforma operativa, dal supporto e dal sito stesso e dalla sua impaginazione:
<article>
<h1>How I Lost My Sponsors</h1>
<strong>Disclaimer</strong>
<p>Within two weeks of writing and posting <A HREF=”/http://zeldman.com/sponsor1a.html” target=”_top”><B>How I Lost My Sponsors,</B></a> the ad banners returned, thanks to some unsolicited <A HREF=”http://zeldman.com/sponsor2.html”><B>letters of support</B></a> and the <B>basic decency</B></a> of the organization which places advertising on my site.</p>
…
<p>For this reason I still publish and invite you to read <A HREF=”http://zeldman.com/sponsor1a.html” target=”_top”>How I Lost My Sponsors.</a></p></article>
Con le regole stilistiche in un altro file, separato dalla struttura, un contenuto come il post di un blog o un articolo di giornale può distribuirsi da un sito a un altro, da un’applicazione a un’altra, da un sito a un’applicazione, senza trattenere più legami di appartenenza formali con una pagina o un sito, e mettendo a rischio anche la stessa riconoscibilità della fonte e dell’autore.
L’evoluzione semantica del codice delle pagine web del resto si accompagna a un altro livello di separazione funzionale che governa i contenuti web attuali ed è riconducibile a quella che Manovich ha definito “logica del database”, per cui non tanto le pagine, ma ogni componente testuale (intendendo qui per testo una nozione allargata che comprende anche l’ipertesto, cioè il linguaggio di marcatura ipertestuale) di ogni pagina della Rete è archiviata in un record di una base di dati che risponde, ricostruendo le relazioni con altri record e ricomponendo dinamicamente i frammenti in una vera pagina HTML, soltanto se e quando viene interrogata da un navigatore che in un qualsiasi momento può diventare un autore, non perché semplicemente in grado di partecipare alla costruzione di un percorso autonomo di lettura, come vuole la letteratura ipertestuale classica, ma perché in grado di costruire nuovi spazi di scrittura.
Assemblando infatti record provenienti da basi di dati non collegate in origine tra loro, si formano strutture HTML di contenuto infinitamente riproducibili, pronte a essere riproposte in nuovi e potenzialmente infiniti contesti di rappresentazione e fruizione: un collage che va ben al di là del copy&paste cui siamo abituati dai tempi dei primi programmi di elaborazione di testi. La pratica di copiare e incollare porzioni di testo si muove all’interno delle condizioni fissate dall’applicazione che copia e dall’applicazione che incolla. Se si passa il paradosso, è una relazione statica, che si esaurisce nel momento dell’incontro sancito dal comando da tastiera ‘cmd+V’ (‘ctrl+V’, se siete utenti Windows).
Dopo quell’azione, spetta all’autore riadattare il contenuto incollato al nuovo ambiente applicativo, oppure incollarne di nuovo. Il copia e incolla è non a caso lo strumento di grado zero offerto dai social network per la ridistribuzione dei propri contenuti su altre piattaforme sociali, a cominciare dai blog, sulla Rete: il pulsante ‘Condividi’ sotto il video di YouTube o sopra la fotografia di Flickr serve giusto a incollare un frammento di codice HTML, che contiene il riferimento al contenuto video o fotografico, in un’altra pagina HTML. L’operazione incorpora un oggetto in un altro, e questo incorporamento stabilizza le potenzialità di riscrittura del contenuto: sarà quel determinato video con quella determinata risoluzione a essere integrato nel sito. Una modifica, un aggiornamento del contenuto nel sito che lo ha incluso passeranno necessariamente per una nuova operazione di copia e incolla effettuata dall’autore.
Per dirla con le parole di Eduardo Navas, che riparte dall’etimologia musicale del temine ‘remix’, quella del ‘copia e incolla’ è una forma regressiva di Remix: come nella tecnica di campionamento musicale, introdotta e portata all’affermazione popolare dal movimento hip-hop, la traccia campionata resta riconoscibile e accessibile nella sua staticità e individualità di oggetto fissato su un supporto, così nella tecnica di incorporamento di codice HTML da un sito all’altro, che a tutt’oggi rappresenta la forma più immediata (user friendly, si potrebbe dire) e praticata di mashup nel Web 2.0, il codice incollato replica un contenuto in una pubblicazione che altro non è che il riflesso statico e fissato di un’altra pubblicazione.
Le piattaforme sociali 2.0 possono invece dare vita anche e soprattutto a un Remix ‘rigenerativo’ dove il campionamento è una tecnica dinamica nella quale la sorgente non serve un contenuto pubblicato, bensì alimenta un processo di pubblicazione che si aggiorna costantemente. In questo scenario, l’intervento dell’autore, piuttosto che collegare due contenuti attraverso il codice di output, interfaccia due applicazioni attraverso la programmazione. Come dice Navas:
In software mashups, the actual code of the applications is left intact, which means that such mashups are usually combinations of preexisting sources that are brought together with some type of “binding” technology.
La ricomposizione giornalistica di news e articoli effettuata da applicazioni come Feedly, oppure le gallerie di remix che è possibile trovare su Flickr o YouTube, dimostrano che i testi, le foto, i video, le immagini della Rete sono non tanto riproducibili, quanto simultaneamente riprogrammabili. Se la riproduzione implica comunque un prima e un dopo, un autore e un riproduttore, oppure nei termini del remix: un campionatore e un campionato, la riscrittura in tempo reale presuppone soltanto un prodotto del quale l’autore originale propone una delle programmazioni possibili.
Fluidr, per esempio, è una completa riprogrammazione di Flickr: navigazione, interfaccia, funzionalità dei contenuti dell’applicazione originaria sono riformulati da Sidath Senanayake (l’autore della riprogrammazione) in uno stile personale che dà al prodotto una configurazione del tutto originale perché originali sono le interazioni che il remix genera, a cominciare dai filtri di visualizzazione applicabili all’esplorazione delle foto caricate dagli utenti su Flickr.
Christian Heilmann ci invita a pensare al Web come a un unico, grande content management system : a partire da questa considerazione a prima vista banale, se solo si pensi alla moltitudine di account e piattaforme online attraverso le quali gestiamo frammenti quotidiani di lavoro e vissuto sociale, la presenza sulla Rete acquista una prospettiva del tutto diversa. Una prospettiva dalla quale iniziare a recuperare pezzi delle nostre identità personali e collettive sparse nei recinti del Web 2.0.