Software culture

Aldo Manuzio è più importante di Bill Gates. E forse anche di Google. Semplificando, potrebbe essere riassunta così l’ultima fatica di Lev Manovich Software takes command, “tradotto” in italiano con Software culture (Olivares, 2010). Un libro ricco e complesso, come il suo precedente Il linguaggio dei nuovi media (Olivares, 2002), ma teoricamente più maturo. Attraverso uno studio critico-genetico, quasi una “filologia del software”, Manovich rilancia la sua idea del software come motore della società contemporanea: dalle caserme ai supermercati, dal telefono alla carta di credito, dalla sanità alla politica, il software è “la colla invisibile” che tiene insieme i diversi sistemi e strutture delle società organizzate.  Sebbene ciascuno parli il proprio linguaggio e persegua i suoi obiettivi, “tutti condividono la sintassi propria del software: strutture di controllo if/then e while/do, operatori logici e tipologie di dati… convenzioni di interfaccia come menu e finestre” (p. 14).  Ma se il motore è il software, l’analisi di Manovich è esplicitamente estetica e il suo interesse più che per i codici è per i loro effetti culturali. E qui c’è il primo passaggio chiave: il software diventa quasi sinonimo di interfaccia. E’ nell’interfaccia che si invera la “rivoluzione della cultura visuale” (p. 107) e a essa l’autore dedica la seconda e più importante parte del volume (i due capitoli Motion Graphics e Design e Visual Effects), dove analizza la logica di strumenti come After Effects e opere come Sodium Fox e Untitled (Pink Dot). I concetti chiave di questa nuova estetica sono fondamentalmente due: ibridazione e deep remixability. Se l’ibridazione è un processo che trae  origine dalle intuizioni di Alan Kay e Adele Goldberg sul “metamedium” (pp.  88-93), il remix è “la logica culturale del capitalismo globale” (p. 34), un’estetica della variazione, della stratificazione e della riscrittura ove è sempre possibile aprire una finestra sul processo delle “forme variabili in continua mutazione” (p. 103):

Ciò che viene remixato oggi non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed epressione. Riuniti nello stesso ambiente informatico, i linguaggi del cinema, dell’animazione tradizionale e di quella computerizzata, degli effetti speciali, della grafica, della tipografia hanno formato un nuovo metalinguaggio (p. 118).

Dunque tornando all’immagine di apertura, una rivoluzione della comunicazione è innanzitutto una rivoluzione della fruizione dei contenuti, parallela (o forse precedente?) all’innovazione dei codici e dei linguaggi. Ma da questo punto di vista l’interfaccia informatica deve fare ancora molto strada per potersi avvicinare al successo plurisecolare dell’interfaccia-libro, il primo metamedium di massa della storia.

La visione estetico-culturale del software di Manovich ha una doppia ambizione: addomesticare (nel senso che gli dava Jack Goody) la tecnologia e i suoi effetti, riportandoli nell’alveo delle scienze umane e fondare una nuova disciplina o un loro inedito conglomerato, i software studies, che offrano all’informatica gli strumenti teorici di cui difetta. Ed è proprio lo user il convitato di pietra di un’accademia per la quale la “questione culturale” del software rimane invisibile (p. 15). Forse l’origine dell’incomprensione della centralità culturale, estetica e politica dell’informatica è tutta qui, nella scarsa propensione degli umanisti a occuparsi di quell’indefinita e minacciosa galassia che chiamiamo “fruitori”.

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