Scrive Jennifer Egan nell’ultimo capitolo del suo romanzo Il tempo è un bastardo (Roma, Minimum Fax, 2011):
Ora che gli starfish, i microportatili per bambini erano diventati onnipresenti, qualunque bambino era in grado di scaricare musica puntando semplicemente un dito. Il più giovane acquirente di cui si aveva notizia era un neonato di tre mesi di Atlanta, che aveva comprato una canzone dei Nine Inch Nails intitolata «Ga-ga».
La parabola dell’industria discografica è forse la rappresentazione più teatrale e popolare (pop, starei per dire) delle trasformazioni che il Web e i bit stanno imponendo alla nostra cultura. Ma il Web che sperimentiamo ogni giorno evolversi tecnologicamente attraverso i nostri dispositivi, arricchirsi di funzionalità, applicazioni, dati, estensioni e gesti, è una piattaforma che sta eseguendo deliberatamente un downgrade dell’età dei suoi utenti, che sia un’età anagrafica oppure emotiva.
Controllate cosa ha regalato iTunes ai suoi clienti, durante le scorse feste di Natale (iTunes nato, lo ricordo en passant, per vendere e ascoltare musica): tre dischi, un video clip, due libri, un ricettario, un cartone animato e ben quattro giochi, l’ultimo dei quali invita i giocatori a liberarsi di «paperelle rincitrullite». Ma non è solo Apple a rappresentare il Web 2.0 come un giardino chiuso all’interno del quale fissare confini stringenti, da Grande Madre piuttosto che da Grande Fratello. Dentro le gabbie identitarie, linguistiche e grafiche di social network come Facebook, Twitter, Pinterest, Google stessa, si costruisce un’esperienza altrettanto limitata e limitante, che premia l’uniformità del contesto e l’immediatezza del consumo a discapito della differenziazione degli spazi e della conservazione della conoscenza.
Come nel delirio infantile di un bambino onnipotente che si circonda di giocattoli, attiviamo profili e scarichiamo app per il solo motivo che è possibile farlo, dimenticando, come fa Alex, il protagonista del capitolo di Egan, che ogni bit di informazione lasciato online «(colore preferito, verdura preferita, posizione sessuale preferita) era immagazzinato nei database di multinazionali che giuravano che mai e poi mai l’avrebbero usato; che, in altre parole, era proprietà di qualcuno, e questo perché si era venduto senza rifletterci».
Forse il Web non è mai cresciuto, eppure Anil Dash ci avverte che, se mai è stato adulto, ora lo stiamo perdendo. Dash ci suggerisce, tra le altre cose, di prendere a esempio le fotografie, uno dei formati contenutistici cruciali della Rete, e di confrontare Flickr con Instagram. Da una parte, la prima, storica piattaforma di archiviazione e condivisione sociale delle foto, che rendeva (e rende tuttora) possibile applicare parole chiave a ogni singolo upload, distribuirlo attraverso feed RSS su altri siti, altre piattaforme, altre app, e rilasciarlo con una licenza Creative Commons che ne favorisce il mash up creativo da parte di altri soggetti, siano individui o imprese, pagine web o applicazioni. Dall’altra, l’app all’ultimo grido, non a caso acquistata da Facebook, che rende automaticamente elementare applicare un filtro vintage allo scatto e pubblicarlo, altrettanto elementarmente, su Facebook (appunto), dopodiché la vita del contenuto si esaurisce di fatto in quello spazio, con tanti saluti all’apertura, alla condivisione e alla remixabilità promesse dal Web 2.0.
Da una parte, autori che possono generare tanti lettori così come tanti altri autori. Dall’altra, fotografi dell’istante che generano un riscontro verbale composto da due parole: “mi piace”.
Del resto, dicono i fautori dei walled gardens, allentare il controllo, lasciare i dati liberi di viaggiare agevolmente nella Rete, permettere effettive personalizzazioni dell’interfaccia, peggiorerebbe l’esperienza utente e soprattutto pregiudicherebbe la crescita del proprio network. Così, mentre i social network acquistano profili commerciali e crescono protetti dalle loro mura, i navigatori del Web vendono la propria maturità e tornano bambini, nei giardini rassicuranti delle social app.
Sì, è proprio così. Wired lo aveva denunciato già qualche tempo fa ( http://www.wired.com/magazine/2010/08/ff_webrip/ ) l’ingresso in rete attraverso le grandi applicazioni onnipervasive (iPad, Facebook, Twitter) ci fa accedere “ad Internet, ma non al Web”! si entra in mondi chiusi che limitano le nostre possibilità di azione solo a ciò che i loro ambienti precostituiti ci permettono di fare. E così addio alla libera fruizione del Web e delle sue opportunità, con tutto quello che ne consegue… Sì, non si insisterà mai abbastanza su questo pericolo! Magari fosse il Web 3.0, il Web semantico dei “linked data” e delle nuove tecnologie semantiche, a tirarcene fuori, facendoci riscoprire il Web e sfuggire alle suadenti lusinghe delle sirene di Internet che prevengono e occultano la libera navigazione nel Web.
Peraltro, in quell’articolo che tu citi, Anderson e Wolff salutavano la morte del Web come la prima vera grande occasione di costruire un modello economico capace di generare finalmente profitti da Internet, guarda un po’. Ma non mi sembra che, al di là di qualche caso isolato e dei soliti noti grandi attori che lo manovrano, il mercato delle app stia producendo ricchezza. Né di denaro, né tantomeno di senso.