Associazione sì, ma con anima

Il 17 dicembre si è svolta a Firenze la riunione organizzata dalla Fondazione Rinascimento Digitale per discutere la creazione di un’associazione di Informatica Umanistica. La partecipazione è stata ampia e fra mattina e primo pomeriggio hanno parlato circa una ventina di persone provenienti da aree geografiche, esperienze e settori disciplinari diversi. Ciascuno ha avuto a disposizione circa cinque minuti per esporre le sue idee. In tale contesto è evidente che tutti abbiamo cercato elementi di convergenza, convinti come siamo della necessità di creare questa associazione sulla base – passatemi il termine in voga – di “larghe intese”. Tuttavia in cinque minuti non era possibile articolare una posizione. E dunque credo sia renda necessario, in vista anche della stesura dello statuto, un approfodimento della discussione, da portare avanti in varie forme (forum, mailing list, questo blog, ecc.).

Le riflessioni che seguono riprendono sia alcuni dei temi toccati negli interventi fiorentini sia un recente scambio di mail (ancora in corso) fra i vari partecipanti.

1) Mi pareva fosse chiaro sia dalle premesse (Tammaro, Bozzi) sia da molti interventi (Ciotti, ecc.), che l’associazione dovesse nascere il più possibile aperta verso ogni disciplina e ogni settore di ricerca. Il nome proposto è (era) infatti “Rete italiana per la cultura umanistica digitale”. Tuttavia, dopo aver letto alcune mail di colleghi e colleghe, credo sia il momento di domandarsi qual è il significato che ciascuno di noi assegna al termine “cultura digitale”. A Firenze è sembrato evidente che per alcuni (e la cornice in cui si svolgeva l’evento rafforza quest’impressione) tale “cultura digitale” si identifichi o tenda a identificarsi con la produzione e gestione di archivi, biblioteche e repositories digitali e con il suo vasto “indotto” (penso ad es. all’analisi dei contenuti, es. TAPoR). E’ vero che al momento il settore archivistico-bibliotecario ha assunto una funzione di traino nei confronti di ciò che chiamiamo informatica umanistica, ma a mio parere le digital humanities non sono né possono essere solo questo. Tanto per dirne una: la progettazione (e la riflessione su) degli strumenti di insegnamento riguarda gli specifici settori che ne fanno uso (dall’insegnamento delle lingue alla didattica della geografia o della storia), gli informatici oppure entrambi? E secondo quali percentuali?

2) Nel mio intervento ho cercato di spiegare che qualsiasi iniziativa vogliamo intraprendere non può non tenere conto del futuro, ovvero dell’investimento sui giovani. La domanda allora è: quali sono gli strumenti con cui dovremmo formare le nuove generazioni? Di qui la proposta di riflettere su un sillabo di IU e censire tutte le attività formative sul territorio nazionale. E tuttavia a che cosa attribuire la debolezza accademica dell’informatica umanistica se non all’assenza di un SSD di Informatica Umanistica (o comunque lo si voglia chiamare)? Sebbene sia in atto una riorganizzazione generale dei settori discplinari, va trovato un modo per garantite un futuro a questa disciplina o insieme di discipline, pensando alla progettazione di un dottorato e al rilancio e al consolidamento delle lauree magistrali. Per fare questo non possiamo escludere dall’orizzonte la creazione del gruppo disciplinare autonomo. Non solo non credo che questo sia in contraddizione con l’interdisciplinarietà, ma anzi ritengo che, almeno in Italia, questo sia l’unico modo per costruire uno spazio genuinamente interdisciplinare e libero da ipoteche. D’altra parte è sempre stato così: non solo la prima cattedra di Informatica in Italia risale agli anni Sessanta, ma ricordo che stessa sorte è toccata alla Sociologia, osteggiata fin dall’inizio sia dagli umanisti (filosofi, pedagogisti, ecc.) che dagli ‘scienziati’ (psicologi, ecc.).

3) Mi dispiace che a Firenze nessuno abbia ricordato che nel 2003 preparammo un documento che venne firmato da oltre 180 docenti, ricercatori ed esperti che riassumeva le caratteristiche principali dell’informatica umanistica. Questo documento avrebbe potuto essere una prima base di discussione ed evitare molte confusioni e molti fraintendimenti. Tuttavia per qualche motivo nessuno – me incluso – lo ha citato. Mea culpa. Il rispetto per la storia, inclusa la propria, è molto importante quando ci accingiamo a costruire qualcosa di nuovo.

4) Il problema dell’interdisciplinarietà è stato lo spettro che si aggirava per i soffitti dell’elegante sala della Casa di Dante. A tale proposito, nell’intervento di Maristella Agosti, docente di ingegneria alla Facoltà di Lettere di Padova, mi hanno colpito tre cose: a) l’affermazione che l’informatica umanistica probabilmente non esiste; b) la proposta che il convegno della neonanda associazione si svolgesse in appendice al convegno nazionale sulle biblioteche digitali (non ricordo esattamente quale); c) la rivendicazione di una presenza degli ingegneri in seno al MIBAC. Forse non rendo giustizia alle generose aperture della collega, ma credo che a) lo spazio di ricerca e riflessione creato da un piccolo gruppo di pionieri (italiani e non) negli ultimi trenta-quarant’anni sia diventato talmente importante che oggi persino gli ingegneri se ne occupano e lo rivendicano come proprio; b) in tutto il mondo esistono programmi di insegnamento e ricerche che esplicitamente fanno riferimento a quella storia e a quelle persone (cfr. T. Numerico / D. Fiormonte / F. Tomasi, L’umanista digitaleappendice, Il Mulino, in stampa). Forse non abbiamo bisogno di un’altra “scatola”, ma certamente non possiamo rtienerci soddisfatti di quelle attuali. Però, in quale scatola disciplinare racchiudere progetti come la Writers House o le opere di Noah Wardrip Fruin e altri? A me pare che questi campi non solo debbano essere rappresentati all’interno dell’associazione, ma ne possano costituire un punto di forza.  La ricerca di successo è quasi sempre interdisciplinare (forse meta-disciplinare), ma questo è ancora più vero nel campo delle DH dove il DNA della ricerca nasce già, per così dire, “disciplinarmente modificato”. Mi dispiace ricorrere ancora a un’inelegante autocitazione, ma forse un ripasso può essere utile:

I centri di ricerca, durante la Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi ad essa, hanno creato uno spazio tra le discipline, una terra di nessuno nella quale, come disse Norbert Wiener, è stato possibile costruire l’innovazione. La nostra impressione è che i problemi etici, sociali, filosofici ed epistemologici siano stati tematizzati fin dalla nascita dell’informatica e siano stati presenti anche nel successivo passaggio innovativo: quando il computer fu rappresentato come uno strumento di comunicazione. Questa prospettiva comunicativa, che non esiteremmo a considerare rivoluzionaria, è stata alla base del concetto di interfaccia uomo-macchina e anche dell’idea di una rete di interconnessione tra tutte le macchine. A essa hanno contribuito personaggi come Vannevar Bush, J.C.R. Licklider, Robert Taylor, Douglas Engelbart, Ted Nelson, Donald Norman e altri. Costoro, o provenivano da una formazione di base in discipline umanistico-sociali, come Licklider, Taylor, Norman e Nelson, oppure avevano una profonda sensibilità che li spingeva a essere visionari nei confronti del futuro rapporto tra macchina e umanità. L’approccio umanistico ha quindi avuto un ruolo centrale nella storia dell’informatica. (T. Numerico / D. Fiormonte / F. Tomasi, L’umanista digitale, cit., p.9)

Come osservava Federico Meschini, è ovvio che tutti noi abbiamo collaborato e collaboreremo sempre di più con informatici e ingegneri, ma non è questo il punto. Il punto è capire chi siamo e che cosa vogliamo noi, che in questa fase di transizione siamo immersi e che nella migliore delle ipotesi abitiamo quella “terra di nessuno” di cui parlava Norbert Wiener.

Io credo che se l’associazione nascerà con e dalla consapevolezza e – permettetemi – l’orgoglio del ruolo fondativo della cultura umanistica nella nascita e nello sviluppo del concetto di informatica, allora avrà un senso; ma se invece sarà un contenitore e vetrina di un particolare gruppo di discipline in cerca di legittimità o peggio uno territorio da colonizzare da parte di discipline (o altri poteri) “forti”, allora non andremo da nessuna parte. Non è infatti questa l’informatica umanistica che molti fra noi hanno contribuito a sviluppare. Ma soprattutto non è questa l’informatica umanistica che si sta diffondendo nel mondo, come testimonia la conferenza DH, dove a ogni nuova edizione si allarga il ventaglio delle discipline e della reciproca contaminazione, emergendo chiaramente l’impossibilità (e direi l’inutilità) di disegnare confini netti e presunte egemonie. Anzi dove è proprio obiettivo epistemologico primario dimostrare che questo tipo di ricerche, seppure partendo spesso da premesse metodologiche comuni, prosperano nelle fluide e poco canoniche dimensioni di confine.

0 replies on “Associazione sì, ma con anima”

  1. Grazie Maurizio… Ho ricevuto altre due risposte private, per altro molto interessanti, ma non so perché i colleghi non vogliono usare questo strumento di discussione. Ne approfitto per ricordare che chiunque voglia può inviare un post che verrà pubblicato in modo autonomo e non come commento.

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