Verso l’informatica culturale?

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Sulla mia to do list campeggiava da oltre un mese la promessa di fare un post sull’articolo di Gregory Crane, David Bamman e Alison Jones ePhilology: when the books talk to their readers, pubblicato in quel fondamentale strumento che è il Companion to Digital Humanties. L’articolo in sé non è né originale né particolarmente esaustivo. Si tratta di un’onesta panoramica su metodologie e risorse informatiche per lo studio dei classici, abbastanza concentrata su ciò che è stato prodotto negli USA. Cuore dell’argomentazione, anticipata nel titolo, è l’ipotesi che la tecnologia in questo settore si stia evolvendo verso un modello in cui le macchine apprendono dagli input degli utenti. E attraverso l’analisi continua del feedback i software sarebbero in grado di incidere sullo stesso atto di lettura, modificando le caratteristiche del processo ermeneutico.

Non v’è dubbio che Gregory Crane sia un vecchio computing humanist e che sappia il fatto suo. Oltre ad aver creato la monumentale biblioteca digitale di classici Perseus, questo studioso è dotato di una visione culturale e “politica” che manca del tutto nelle nostre facoltà umanistiche (e non solo). A parte la discutibile affermazione che “all philological inquiry, whether classical or otherwise, is now a special case of corpus linguistics”, nelle conclusioni gli autori introducono l’interessante concetto di cultural informatics:

“ePhilology is part of a larger, cultural informatics: ePhilology represents one particular approach to a comprehensive analysis of earlier culture: we may center our attention on words, but our questions will soon lead us to the evidence of material culture. Classics may be big enough to sustain its own classical informatics, but we would be much better served by contributing to a larger cultural informatics.”

Qualche tempo fa avevo cercato di esprimere in modo assai meno efficace un concetto simile, parlando della filologia come “interfaccia della cultura”. Tuttavia all’epoca non avevo ancora esplorato le potenzialità dei cultural studies che oggi mi appaiono centrali anche per una revisione dei fondamenti dell’informatica umanistica. Nel commento al post precedente citavo la scoperta del filone etnografico capitanato da Wesch. Etnografia e studi culturali a mio avviso sono oggi l’alleato più potente per ridefinire la mappa concettuale e teorica delle Digital Humanities. Per fare ciò, ovvero per applicare un ethos etnografico all’informatica umanistica, occorre però andare oltre il feticcio del “documento” che ha appiattito gli oggetti culturali sulle loro rappresentazioni (vedi XML-TEI). In un classico dell’etnografia della cultura, James Clifford scriveva:

“[la cultura va considerata] come composta di codici e rappresentazioni in profondo contrasto fra di loro. […] Il loro interesse [dei saggi raccolti nel volume da lui curato] per la costruzione del testo e la dimensione retorica vuole porre in evidenza la natura costruita e artificiale delle descrizioni culturali.” (J. Clifford, “Introduzione: verità parziali”, in J Clifford / G. E. Marcus, Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 1997 [1986 ed. or.], p. 26)

Come ho cercato di mostrare in un intervento recente dedicato alla semiotica della codifica, anche la rappresentazione digitale non sfugge a questo regola: “I linguaggi di markup possono essere considerati, sia dal punto di vista intrinseco che estrinseco, vere e proprie ‘metalingue’ capaci di rappresentare e tradurre la conoscenza”. La semiotica della cultura di Lotman e Uspenskij può esserci di aiuto “per definire le basi di una teoria ‘culturale’ della codifica digitale, ovvero dei modi e delle forme in cui gli strumenti di digitalizzazione sviluppano, traducono e modificano i meccanismi della memoria e delle identità culturali.”

Tornando a Crane & c., la loro ipotesi di fusione istituzionale fra esigenze umanistiche e competenze informatiche fa sorgere alcune domande. Che cosa accadrà alle scienze del testo (di cui la filologia rappresenta il nucleo fondativo) quando il testo esisterà solo in formato digitale? Oggi la filologia si dedica alla conservazione e diffusione dei contenuti nati nel mondo della carta; ma la filologia del futuro sarà questo? A essere pessimisti, l’introduzione del termine cultural informatics potrebbe anche essere interpretato come l’ammissione di una sconfitta. La domanda da farsi infatti è: tra cinquanta anni chi farà ricerca in campo umanistico? Temo che in un tempo più breve di quello che pensiamo filologi, linguisti, glottologi, ecc. superstiti saranno tutti informatici. O semplicemente non saranno.

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  1. Oggi la filologia si dedica alla conservazione e diffusione dei contenuti nati nel mondo della carta

    Domenico, è proprio questa la domanda centrale, che tra l’altro si pone anche in coda al tuo post sul libro di Raul Mordenti. La mia convinzione è che gli studi culturali impongano un aggiornamento urgente del concetto di testo e in senso più lato di cultura. In altre parole, con Benjamin, dovremmo iniziare a chiederci come cambia il testo con gli strumenti del self publishing, come cambia il video con Youtube, come cambia la fotografia con Flickr e non annunciarne le rispettive morti. Tra l’altro, come dice Derek Powazek, probabilmente non è esistita epoca migliore dell’attuale per produrre (multi)media. Certo, l’evoluzione comporta derive populistiche probabilmente inevitabili, ma, come concludi tu, il futuro sarà informatico o semplicemente non sarà.

  2. I think what Domenico is talking about at the end of his entry is the frustration that his work is being obscured by the computational methods that are dictating the entire process of interpretation. I think there is reason for hope, however, because this effect is really part of our struggle with the new medium. “You can’t have art without resistance in the materials” said William Morris, in a kind of media theoretic statement from the 19th century. I think markup is just that: an expression of our frustration with the new medium. I don’t believe that interpretation of the text (even if the text becomes a movie) is going to disappear. That’s so fundamentally different from computing I don’t see how one can ever take over the other.

  3. Hi Desmond! What I was trying to say is that the practical effect of cultural informatics could be a boomerang to us (humanists). At the same time, I think it is not just a cultural opportunity, but an historical necessity.
    Intepretation will not disappear, but my question is: who is going to produce and control the new “hermeneutic machines”?
    Crane & C. do not seem worried about who is going to do what. Perhaps because here in Europe the profile of the humanist scholar is more solid (and conservative), hence we keep stronger cultural barriers between disciplines. Hybridation here is more difficult, however that’s exactly why we see potential conflicts where Anlgo-Americans simply want to get things done. By whom, it’s just a tedious “Old Europe” kind of question.

  4. So if I understand you rightly you are saying your worry is that the scholar and the practitioner (to use McCarty’s terms) will not cooperate or not in the right way. The practitioner (e.g. software engineer) might design and control the technology which will not meet the requirements or needs of the scholar. This is of course mentioned by several people, including Shillingsburg in his latest book. McCarty says that it is OK if the scholar and practitioner are different people but I am not so sure. I think that without teaching informatics to the humanists, without them integrating it into their research methods and understanding how that works there can’t be any true ‘symbiosis’ between computing and humanities. The digital medium will remain something into which they are always projecting their frame of reference, not working with it.

  5. What I was trying to say (but I admit it was hard to get the rhetorical nuances for a non-native speaker!) is that the scholar *and* the practicioner will be, in the near future, the same person. However, the consequences of this possible hybridization will be not entirely (if any) positive for the present academic organizations. It seemed to me that Crane & C. underestimated the potential conflict between humanities and informatics. I don’t sympathize with the academic establishment, nontheless I fear this hybridization might have, especially on the long run, a negative effect on humanities research. But make no mistake: this is not only an unavoidable historical process, but I won’t lift a finger to avoid it!

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