Elegante ed ironico, Tito Orlandi il 27 gennaio ha presentato la sua conferenza plenaria nel convegno annuale dell’Associazione per l’Informatica Umanistica e le Culture Digitali (AIUCD), l’associazione che rappresenta in Italia il vasto e complesso universo delle Digital Humanities.
Proprio intorno a questo punto cruciale della denominazione (Digital Humanities vs. Humanities Computing) ha preso avvio la ricostruzione storico-critica di Orlandi.
Accademico dei Lincei, pioniere dell’informatica nella Facoltà di Lettere dell’Università “Sapienza” di Roma, lo studioso ha quindi proposto una periodizzazione dello sviluppo storico della disciplina. A causa della lamentevole assenza in Italia di un settore disciplinare che dia collocazione alle molteplici iniziative attive dagli anni Novanta fino ad oggi, e ai relativi ricercatori, Orlandi ritiene troppo limitati i riconoscimenti accademici per chi ha contribuito con il proprio lavoro scientifico a promuovere e tutelare il patrimonio culturale italiano nell’ultimo ventennio.
La definizione della disciplina, che è anche delimitazione di senso e iscrizione entro un immaginario sociale e intellettuale, rimane infatti un punto cruciale nell’elaborazione dialettica del linceo. Tuttavia essa sembra anche una questione di fondo che non incide sulle reali evidenze storiche della prassi di ricercatori e studiosi di tutto il mondo. Se all’estero, infatti, sono molteplici le occasioni di confronto e di affermazione accademica delle Digital Humanities, in Italia sembra permanere una sostanziale diffidenza nei confronti di chi utilizza l’informatica per e nella ricerca delle diverse discipline umanistiche.
Perciò, da filologo militante – come egli stesso si è definito – propone una scansione del campo di studi in tre fondamentali periodi. La prima era tecnologica risalirebbe al periodo che va dagli anni Venti del Novecento fino al 1960, anni in cui i cosiddetti “precursori” avrebbero posto le basi teoriche di ciò che sarebbe stato sviluppato successivamente.
In seguito, il ventennio Settanta-Novanta sarebbe – secondo Orlandi – un periodo di intense sperimentazioni e ricerche documentati dai dibattiti conservati nella lista di discussione Humanist discussion group. Come esempio, compare sullo schermo della proiezione un file di solo testo; in esso il pioniere dell’Informatica Umanistica ha segnato con asterischi le parti da evidenziare nel discorso da cui emergono parole chiave ancora estremamente attuali. Si tratta di uno scambio avvenuto nel 1995 fra alcuni dei protagonisti della Text Encoding Initiative e dal quale emergono riflessioni metodologiche che scandagliano le fondamenta stesse della letterarietà e della capacità di rappresentazione dell’oggetto testuale. Numerosi sono i confronti su SGML, sulla sua essenza, e sulla capacità in quanto linguaggio descrittivo di attivare un efficace sistema di rappresentazione dei fenomeni testuali, partendo dal banale problema di come è possibile far apparire lettere accentate sugli schermi, nell’ottica di una più ampia riflessione sui sistemi di scrittura e la loro rappresentazione. Del resto in quel periodo ferveva il dibattito sull’opportunità di modificare ASCII e farlo divenire UNICODE in un’ottica di ricostruzione storica e operativa degli standard grafici.
In seguito a queste discussioni dei maggiori studiosi di Information Technology, negli anni Novanta la semiotica avrebbe affiancato, secondo Tito Orlandi il trionfo della tecnologia, cosa che avrebbe provocato che si andassero sempre più a coprire i significati insiti nella prassi tecnologica stessa.
È per questo motivo che Orlandi invoca una rinascita della trasparenza informatica, per conoscere ad ogni passo quale modifica si stia concretamente realizzando nei contenuti e nelle forme letterarie, come nei software.
Ritornare alle basi, quindi? Sì, “back to basics” entro differenti prospettive. Ovvero il tecnico-ricercatore di discipline umanistiche dovrebbe tener conto del mutamento e renderlo esplicito mentre fa ricerca. Il professore-ricercatore dovrebbe farsi carico di introdurre ricerche e allievi nel contesto che identifica l’Informatica Umanistica. Infine lo studioso-ricercatore dovrebbe interessarsi di tutto il processo per pura curiosità scientifica.
Le migliori iniziative che attualmente si occupano di informatica e scienze umane si rifanno a metodologie di ricerca con sistemi concreti di approccio al testo, tali approcci secondo Orlandi sarebbero inaccettabili, si veda come esempio alcuni esiti della sentiment analysis o la filologia genetistica che si sofferma su ricostruzioni lachmaniane utilizzando derivazioni genetiche delle popolazioni.
Tra facezie e salaci battute da veterano dell’Informatica Umanistica, Orlandi si ribella dunque alla deriva digitale in quanto filologo militante. Ma in questo modo prova a tracciare un sentiero inesplorato, mettendo sul tavolo dei partecipanti alla conferenza della AIUCD un ampio spazio di discussione per chi sia interessato non soltanto a mettere a punto strumenti informatici, ma anche a riflettere e discutere sui metodi che il cambiamento di paradigma ha generato e continua a generare.