Che cosa è veramente il computer?

computer ockham“L’idea che emerge da questo saggio è che la rappresentazione sintattica non ha nulla di di ovvio o naturale, non può essere né validata né giustificata sulla base di forme cognitive più semplici di tipo “analogico”. Essa è una grande “costruzione”, una forma “simbolica” che caratterizza il pensiero moderno e la cui azione si estende ben oltre la matematica e la scienza, e tocca la natura più profonda della nostra civiltà.” (Il computer di Platone, p. 17)

Rispondere alla domanda che appare nel titolo di questo post non è certo semplice. Eppure è a tale impresa che da più di quindici anni si dedica Luigi Borzacchini, eminente storico della matematica dell’Università di Bari, autore di due opere fondamentali: Il computer di Platone (Bari, Dedalo, 2005) e il Il computer di Ockham (Bari, Dedalo, 2010). Dico subito che si tratta di lavori di riferimento per chiunque si accosti – e si accosterà nel futuro – alla storia dei concetti e delle idee che sono alla base dell’universo digitale. Ma allora perché ne parlo a distanza di cinque anni dall’uscita del secondo libro? Confesso che la complessità, ricchezza e profondità di questo lavoro (che giustamente Odifreddi nell’introduzione al primo volume definisce “rivoluzionario”) mi ha sempre messo in uno stato di soggezione. In un mondo accademico che propone ormai solo monodosi e piattini insipidi, obbligandoci a considerare la monografia un residuo del passato, lavori come questi non solo sono rari, ma generano stupore e ammirazione per la sana hýbris intellettuale. Il senso di inadeguatezza nel complesso è rimasto, ma l’urgenza di far conoscere Borzacchini al pubblico degli umanisti digitali mi spinge finalmente a scriverne. Una storia, antropologia ed epistemologia dell’informatica? Difficile sintetizzare i contenuti di questa “archeologia del pensiero formale” che parte dalla Grecia (I vol.) e arriva fino a Medioevo e Rinascimento (II vol.) e che per la gioia di un ‘multiculturalista’ come me include incursioni nella Cina (cap. XIII del I vol.), nel pensiero arabo e in quello indiano. L’umanista digitale vi troverà argomenti familiari, come la riflessione sul concetto di modello o i frequenti riferimenti alla storia della scrittura e alla filosofia del linguaggio, ma tutto questo inserito in una cornice interdisciplinare. Luigi Borzacchini ci ha generosamente messo a disposizione un extended abstract dei due volumi, in inglese, che spero possa stimolare i colleghi stranieri ad approfondire e soprattutto a proporne una traduzione. La profondità della riflessione, la ricchezza dei dati, la scrupolosità e ampiezza della ricerca rendono infatti questi due libri un’impresa unica (entrambi superano le cinquecento pagine) della storia della scienza. A quanto ne so, non esiste né in Italiano né in altre lingue europee nulla di simile e ciò ne rende ancora più preziosa (e necessaria) la divulgazione.

Mentre scrivevo queste righe, Willard McCarty, su Humanist, riportava una riflessione di Thomas Haigh sull’utilità della storia dell’informatica e sui supposti pericoli della divaricazione fra chi l’informatica “la fa” e chi ne scrive (gli storici…). Borzacchini pare colmare questo gap: pur avendo una formazione matematica (insegna matematica discreta e storia della matematica), unisce la visione storica alla profondità teorica, le connessioni interculturali alle preoccupazioni sociali. Scelgo allora come conclusione le ultime righe di Il computer di Ockham, dense di implicazioni per il nostro ruolo di umanisti digitali:

“Quello degli antichi era un mondo dato, e quindi inventio per essi significava scoperta o rivelazione di qualcosa di preesistente più che produzione di qualcosa di nuovo. L’idea di una scienza che attraverso la tecnica crea qualcosa di nuovo è una concezione che emerge lentamente solo verso la fine del Medioevo, forse il suo primo segno è in Ockham che ritiene la scienza solo pro maiori parte speculativa, e giudica scienza speculativa e pratica trattare de eodem subiecto, sostenendo l’indistinguibilità di naturale e artificiale, in cui quest’ultimo è inteso semplicemente come assemblamento di cose naturali preesistenti tramite semplice moto locale. (…) Ma un inventore crea solo cose che può concepire, e quindi l’orizzonte tencologico è fissato dalla percezione della realtà naturale diffusa, da quella naive physics che connette la filosofia naturale dominante al panorama tecnico e sociale quotidiano, e viceversa la tecnologia diffusa costituisce il mondo su cui la stessa naive physics si costituisce.” (Il computer di Ockham, p. 617)