Etnofilologia (e altre cose poco filologiche)

“Innanzitutto per la storia, per la civiltà. E subito dopo, per l’emozione dell’incontro: coi testi, con le parole. Detto questo, detto per che cosa dovrà combattere il filologo di domani, resta da chiedersi: “e contro chi?”. Dico subito come la penso: contro se stesso, contro la propria arte fattasi disciplina, contro la competenza assassina dei metodi (…), contro la disinvoltura davanti al mistero.”

Inizia così Etnofilologia. Un’introduzione (Napoli, Liguori, 2011), un volume bello e importante scritto da Francesco Benozzo, filologo, scrittore e musicista modenese.  Un libro militante e ambiziosamente provocatorio che oltre a tentare di scardinare gli idola theatri della filologia tradizionale (cap. I) mira, attraverso esempi affascinanti e convincenti (cap. III), a gettare le basi per la ricerca etnofilologica, ovvero “un metodo per interpretare i reperti testuali e i documenti antichi innanzitutto come esperienza di comunicazione tra esseri umani (e non testi che vivono in relazione con altri testi).” (p. 40)

Dunque “la filologia dovrebbe continuamente confrontarsi con responsabilità che non hanno a che vedere con il nostro passato, ma semmai con il problema della sua rappresentazione. Questo ruolo cruciale di mediazione è stato frainteso e appiattito nei termini di una semplice vocazione alla ‘preservazione’ (…). E’ proprio a questo livello che si riscontrano gli esempi di rappresentazioni più irresponsabili, quasi sempre volte a enfatizzare, del passato, l’autenticità delle forme a scapito dell’autencità delle esperienze. ” (p. 9) Tale autenticità, per Benozzo, non potrà mai essere ricostruita attraverso la fede, per esempio, nell’Originale Perduto. Questa come altre forme ideologiche  riflettono  “una falsa idea di tradizione che viene identificata esclusivamente con i reperti elitari di cui siamo a conoscenza (i manoscritti, così come ogni attestazione scritta in genere).” (p. 10) In conclusione, di fronte alla scarsa eticità dei comportamenti del filologo-ideologo (teologo?), “per il filologo di oggi la scelta di fondo è obbligatoriamente quella tra essere un agente dell’accademia o un difensore del dissenso” (p. 15)

Tali dichiarazioni fiammeggianti, che abbondano nella prima parte (cfr. “la filologia sta alla letteratura come l’autopsia alla resurrezione dei morti”, p. 28), echeggiano le accuse di Nietzsche (un autore stranamente mai citato da Benozzo) contro gli “affossatori del presente” e l’ipertrofismo storico:

“Il senso storico, quando domina incontrollato e trae tutte le sue conseguenze, sradica il futuro, poiché distrugge le illusioni e toglie alle cose esistenti la loro atmosfera, nella quale soltanto possono vivere.” (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano, Adelphi, 1996, p. 57)

Premetto che essendo d’accordo con gran parte delle tesi di Benozzo, è difficile per me resistere alla tentazione di continuare a elencare tutta una serie di argomentazioni che considero sorelle eterozigote della parallela ricerca che conduco dai tempi di SFED (ma cfr. questo post del 2009). Tuttavia mi pare qui più utile sottolineare quelli che a mio parere  rimangono alcuni nodi critici del volume. Pur aprendo interessantissime prospettive sull’etnografia testuale, manca del tutto un confronto con il tema dei supporti della comunicazione, ovvero con la consolidata letteratura che ha indagato, da varie prospettive, il rapporto fra le “tecnologie dell’intelelletto” (per usare un’espressione di Jack Goody) e l’organizzazione del potere sociale, politico, economico. Penso ovviamente alla Scuola di Toronto (Innis, McLuhan, Ong, Havelock, ecc.), ma anche alle correnti più recenti della mediologia e dell‘etnografia digitale. E per ciò che concerne il problema della rappresentazione, con l’informatica testuale. Insomma, considerato il vasto e interdisciplinare impianto critico-metodologico, si sente la mancanza di una riflessione, anche a latere, sui nuovi strumenti di comunicazione e in particolare sulla digitalizazzione della traccia – scritta, orale, visuale. In tal senso sorprende l’assenza di un approfondimento delle questioni di filologia materiale, ovvero degli studi di bibliografia testuale e storia materiale dei testi (vd. i lavori di Roger Chartier o Donald F. McKenzie) che costituirebbero il terreno naturale dell’auspicato incontro fra discipline linguistico-filologiche e scienze sociali.

Ma il vero nodo irrisolto del libro, in fondo, è che sotto la superficie degli attacchi più virulenti scorre la vena tumultuosa della passione e della fede per e nella  memoria storica: “Ho l’impressione che, finché si resterà nella situazione di una filologia come ripristino e restitutio (…) non verranno per niente regolati i conti con l’alterità di ciò che ci parla attraverso i documenti, con la storia vera e propria, con ciò che sta dietro i nostri manoscritti, in definitiva ciò che i testi raccontano”(p. 36, grassetto mio). Già, ma che cosa è, allora, che i testi raccontano? Se è vero che l’ossessione del filologo è la “verità” (cfr. p. 16), in che cosa consisterebbe “la storia vera e propria”? Se il problema della filologia è quello di essersi costituita come potere e interfaccia della trasmissione della cultura, la prospettiva evoluzionista (cfr. pp. 56 e ss.) sostituisce alla lotta “storica” degli uomini  la lotta “biologica” delle forme culturali che vengono selezionate in base al “vantaggio” evolutivo:

“Le variazioni culturali che la nostra specie è in grado di inventare non sono, in definitiva, illimitate: al contrario, esse sono strettamente condizionate dalle rappresentazioni e dai meccanismi cerebrali che l’evoluzione ha determinato geneticamente” (p. 56)

Naturalmente è impossibile negare la potenzialità innovatrice di tali apporti. Ma se il vero obiettivo dell’autore non è tanto quello di rifondare la filologia attingendo a strumenti teorici, dati e metodologie generalmente ignorati in ambito umanistico (biologia evoluzionistica, paletnologia, scienze cognitive, ecc.; cfr. pp. 40-58),  ma contribuire a fondare un nuovo modo di concepire e studiare la cultura (obiettivo sintetizzato nella formula “quarto umanesimo”, p. 1), alcuni degli strumenti epistemologici messi in campo sembrano condannare la filologia (e le scienze umane tutte) a un ruolo ancillare all’interno di un più vasto progetto di studio dei fondamenti biologici della cultura (cfr. il più volte citato Changeux 2007). Il che non è forse il peggiore dei nostri destini – purché se ne sia consapevoli.

 

Riflessioni a margine (per non-filologi)

Ogni tentativo di rifondare la filologia, cioè l’umanesimo, è in definitiva un tentativo di rifondare le radici della nostra cultura. Riformare la filologia vuol dire riformare l’università, la politica, i mezzi di informazione, l’economia. Il libro di Francesco Benozzo ribadisce con forza e intelligenza questo concetto, ma in definitiva non riesce (non vuole) saltare del tutto il fossato che lo divide da un (pericoloso? ma per chi?) dissolvimento. Il patrimonio umanistico greco-latino e quello giudaico-cristiano, considerati l’eredità fondativa dell’occidente (e non solo), sono il terreno di esercizio di un potere intellettuale, religioso, militare ed economico che, all’apice della sua diffusione, era condiviso dal 10-15% della popolazione (tali sono i dati sull’alfabetizzazione, arrotondati per eccesso, forniti per es. da Gamble 2006 per i primi secoli dell’era cristiana).

Allora forse occorrerebbe riflettere non solo su metodi, procedure e dispositivi di questo dominio, ma anche sui suoi risultati nella società odierna. L’immane mole di sapere, informazioni e dati traghettati al di qua della storia a chi è servita (e servirà)? Per quali scopi? Quale società ha costruito? Quali scuole, quali università, quale politica? Si dirà, allora, che è proprio l’assenza dei valori “tradizionali” la vera tabe dei nostri tempi. Il che equivale a dire che il problema della fame nel mondo deriva dalla scarsità di caviale. Altri affermeranno, con fondate ragioni, che abbiamo bisogno del latino e del greco perché – guardiamoci attorno – fanno parte della nostra storia. Io dico che forse quella storia dobbiamo dimenticarla. Oggi ne abbiamo la prova più tangibile. L’ipotesi più accreditata dai media (cioè dall’élite intellettuale) sulla crisi attuale è che si tratti, al fondo, di una “crisi culturale”. Finalmente una verità: ma cultura di chi? Si dice, poi, “non c’è un progetto”. E’ vero. Ma anche se ci fosse, chi sarebbe in grado di portarlo avanti? Perciò a me pare che anche la tesi della crisi “culturale” sia una bugia dentro una bugia ancora più grande. La cultura è sempre delle élites al potere e questa crisi è innanzitutto una crisi delle élites. Élites vecchie e stanche che si sentono minacciate dal crollo del mondo – il nostro? O forse soprattutto il loro?