Internet ci rende stupidi?

Se non si contraddicesse pagina dopo pagina, Nicholas Carr avrebbe scritto un libro interessante. O, forse, l’interesse nella lettura di Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaello Cortina Editore, 2011) è direttamente proporzionale al numero delle contraddizioni contenuto in esso. Iscritto d’ufficio nella categoria Pentiti (o se si preferisce Apocalittici), dopo la pubblicazione di un articolo su Atlantic nel 2008, che ha costituito la base sulla quale si è sviluppata la scrittura del libro, Carr è convinto che l’uso intensivo della Rete finirà per atrofizzare il cervello dell’uomo.

Per sostenere la sua tesi, parte da McLuhan e finisce con Kubrick, passando per la letteratura classica dei communication e cultural studies e le neuroscienze e le scienze cognitive, offrendoci un quadro certo non originale, ma scritto con una retorica godibile e degna di David Weinberger, tanto per citare un esponente del versante opposto, quello degli Integrati. Peccato solo che l’excursus non conduca a nessuna delle conclusioni cui l’autore è giunto nel momento in cui ha scoperto di essere incapace “di prestare attenzione a un’unica cosa per più di due minuti” (p. 31). Carr stesso ricorda la sensazione di sopraffazione che nel diciassettesimo secolo investì gli intellettuali del tempo, travolti dal diluvio tipografico tanto da individuare nei libri una delle grandi “malattie” dell’epoca, una malattia che appesantiva il mondo, caricato da sovrabbondanza continua di materiale inutile e superfluo (p. 203).

Nel rimpiangere invece la lentezza e la riflessività della mente gutenberghiana, Carr attribuisce al computer, al Web, e a Google lo status di malattia definitiva, considera la cultura del software l’atto avverato della profezia socratica della perdita della memoria, ma, dopo avere esposto con brillantezza e dovizia di studi come la neuroplasticità del cervello consenta all’uomo di indirizzare e letteralmente strutturare pensieri e azioni che si adattano agli stimoli ambientali, impegnando facoltà e flessibilmente disimpegnandone altre, Carr non riesce a fornire una spiegazione davvero convincente del perché i “pensieri diversi” del Web siano oggettivamente peggiori di quelli prodotti dalla cultura della stampa. Perché la tecnologia cartografica, per esempio, “diede all’uomo una mente nuova e più aperta, in grado di comprendere meglio le invisibili forze che danno forma al suo territorio e alla sua esistenza” (p. 61), mentre i dispositivi GPS intorpidiranno senza speranza i neuroni dell’uomo deputati alla rappresentazione spaziale (pp. 250-251).

E dimentica, l’autore, che il Web non offre solo un cambio di prospettiva (e di soggettiva) nella fruizione, ma anche e soprattutto nella produzione dei contenuti. Semmai, si tratta di capire come questa immensa, collettiva protesi della memoria individuale che è la Rete possa agire, per dirla con le parole del citato Pascal Boyer, da “punto cruciale della trasmissione della cultura” (p. 233), una cultura che si formi non fuori, ma intorno al (e dentro il) Web.

P.S. Dopo essersi concentrato presumibilmente più a lungo di un paio di minuti nella scrittura del libro, Carr confessa (p. 237) di essere tornato a consultare regolarmente feed RSS, provare vecchi e nuovi social network, scrivere post sul suo blog, ascoltare musica da Pandora e guardare video su YouTube. Dice che è proprio molto bello, proprio non potrebbe vivere senza.