Tra due settimane, il 31 gennaio 2012, Splinder chiude. Negli anni dell’esplosione della prima ondata del Web 2.0 e dei contenuti generati dagli utenti, Splinder è stata la piattaforma italiana per i blog, la porta di ingresso nazionale alla grande conversazione sulla Rete per amateurs, appassionati, esperti e professionisti. Dieci anni e centinaia di migliaia di blog dopo la sua apertura, la home page annuncia che “il servizio Splinder verrà dismesso”, seppellendo definitivamente tutti i siti creati attraverso la registrazione al portale. Molti, come Luisa Carrada, che su Splinder teneva il seguitissimo blog del mestiere di scrivere, si sono subito impegnati nel trasferimento dei contenuti su altri servizi come Worpdress.com, non senza qualche difficoltà. Molti altri, probabilmente la maggior parte (e del resto già allo stato attuale i blog attivi sono solo una parte minoritaria di tutti quelli attivati nel corso del tempo), scompariranno per sempre dal Web al momento della dismissione del servizio.
Come successo per Geocities nel 2009, intere città abitate saranno non solo abbandonate ma abbattute, insieme agli abitanti. “Come se d’un tratto una parte della mia vita mi fosse passata davanti”, ha commentato qualcuno. Ora, sebbene i numeri di Splinder non siamo paragonabili a quelli del servizio comprato e poi chiuso da Yahoo!, la chiusura da parte di Dada della piattaforma di blog hosting rappresenta per gli utenti che generano contenuto sulla Rete un segnale ancora più drammatico sulle forme e la consapevolezza con cui sulla Rete è possibile vivere, abitare, pubblicare, rilasciare e archiviare contenuti.
Ai tempi di Geocities, esisteva di fatto una simmetria tra desktop e browser dell’utente iscritto, per cui le pagine statiche HTML pubblicate on line erano un prodotto dell’off line, dove risiedeva una copia primigenia. Per ogni eventualità, l’accesso FTP consentiva agli utenti di sincronizzare file, e con i file i contenuti prodotti e pubblicati sul Web.
Nell’epoca dei content management system resi popolari dalle piattaforme di blog hosting (Blogger primo fra tutti), la gratuità e facilità di accesso alla creazione, produzione e organizzazione dei contenuti si pagano con l’inaccessibilità ‘materiale’ dei file che includono i contenuti, contenuti che invece vengono archiviati in righe di database che compongono pagine HTML solo ed esclusivamente quando un navigatore le sollecita attraverso un identificatore uniforme della risorsa, il collegamento permanente. Il database del blog resta fuori dal controllo dell’utente, così come i file che eseguono gli script di ricomposizione delle pagine dinamiche. In una sola parola: il software.
Il blogger ‘ospitato’ possiede contenuti in ragione della disponibilità di uno spazio di un editore che stabilisce tecnologie, modi e tempi dell’erogazione del servizio, influenzando la portabilità, la compatibilità e dunque la vita dei contenuti stessi al di là del proprio spazio, ma il blogger (a costi zero) di WordPress.com non possiede l’insieme del pacchetto: software e dati. Per quanto i servizi prevedano forme di esportazione e dunque di backup dei contenuti, se mai le contemplino nella loro offerta gratuita, l’utente non avrà mai nelle sue mani il sito così come era, semplicemente perché il pacchetto non è suo. Senza considerare le difficoltà ulteriori di esportare, gestire e importare dati dinamici, magari strutturati in XML, e non semplici e statici file HTML.
Per possedere davvero tutti i suoi dati, Tantek Çelik opera una sorta di ‘generazione inversa’: l’alimentazione del suo account su Twitter, per esempio, inizia su un database locale, di proprietà dello stesso Çelik, che poi ridistribuisce da quella fonte il contenuto sul social network, che di fatto acquisisce una copia. Si tratta di un approccio progettuale estremo, che ribalta l’uso delle API delle applicazioni sociali. In questi casi, infatti, le API vengono di solito sfruttate nella direzione contraria, vale a dire nel senso di ridistribuire il contenuto generato sulla piattaforma Web 2.0 in un database terzo, di proprietà dell’autore, che così se ne riappropria.
Ma quale che sia la strada della riappropriazione, la chiusura di Splinder richiama ancora una volta l’utente che genera contenuti sulla Rete a una nuova alfabetizzazione riguardo il futuro del proprio prodotto e della propria vita on line: vogliamo chiamarla cultura del software?