Negli ultimi due mesi gli effetti della crisi finanziaria globale hanno iniziato a colpire duro scuola e università. I tagli colpiscono un po’ ovunque nel mondo occidentale e se in Francia, Regno Unito, Italia e Austria si scende in piazza (anche con scontri violenti, come abbiamo visto a Londra), il dibattito non è meno infuocato negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. E come sempre accade nei momenti di crisi, le scienze umane sono le prime a farne le spese.
La crisi delle Humanities in USA risale agli inizi degli Novanta, quando la Modern Language Association cominciò a documentare il crollo nell’offerta dei posti di lingue e letterature moderne. Ma l’incattivimento neo-liberista degli ultimi anni indica un salto di qualità. Segnalo qui di seguito alcuni interventi che sembrano avere in comune una riflessione di fondo: il danno materiale della riduzione dei finanziamenti nasconde il dato ideologico, ovvero che sotto attacco è la stessa legittimità ad esistere dell’università in quanto luogo di produzione e trasmissione dei saperi. In questo senso si esprimono lo storico Keith Thomas sul Times Literary Supplement (What are university for?) e Stanley Fish sul New York Times (The crisis of the humanities officially arrives), il quale non solo spiega come in molti casi i soldi delle tasse pagate dagli studenti di Humanities facciano campare il resto delle facoltà non-umanistiche, ma invita a non accontentarsi delle briciole (CRUI docet) e a sfidare politici e amministratori sul loro terreno:
“And as you do this, drop the deferential pose, leave off being a
petitioner and ask some pointed questions: Do you know what a university is, and if you don’t, don’t you think you should, since you’re making its funding decisions? Do you want a university — an institution that takes its place in a tradition dating back centuries — or do you want something else, a trade school perhaps? (Nothing wrong with that.) And if you do want a university, are you willing to pay for it, which means not confusing it with a profit center? And if you don’t want a
university, will you fess up and tell the citizens of the state that
you’re abandoning the academic enterprise, or will you keep on mouthing the pieties while withholding the funds?”
Ma non tutti sono su questa linea. Per alcuni le responsabilità della crisi dell’università vanno ricercate al proprio interno. Così lo storico delle religioni della Columbia Marc C. Taylor, che in un articolo dal titolo significativo (End the University as We Know It), invoca una serie di riforme lacrime e sangue, fra cui l’abolizione della tenure (assunzione a tempo indeterminato): “initially intended to protect academic freedom, tenure has resulted in institutions with little turnover and professors impervious to change.”
In questo caos, inaspettatamente, si alzano voci in difesa delle Humanities addirittura fra gli economisti:
“One of the vehicles the neo-liberals use to promote their anti-intellectual agenda is the false claims that governments are financially constrained. By appealing to this myth lots of questions about motivation are avoided. They promote the myth that some activity is “too expensive” or “not productive enough” and we are thus shoe-horned into that way of thinking. But I feel good knowing there are libraries full of books of poems and plays and stories and I know that sovereign government are not financially constrained. I might not be able to defend the quality of a poem but I can certainly explain how the monetary system works. So you poets and playwrights under threat – come aboard and learn about fiscal policy and the monetary system and spread the word.”
E’ evidente che le ragioni della crisi planetaria dell’università sono complesse, ma se i governi non hanno timore di tagliare senza pietà l’educazione pubblica è perché una larga fetta di società è indifferente o apertamente ostile al sistema di formazione. Opporsi a un’idelogia liberista che giunta al capolinea mostra i suoi aspetti più violenti è nostro dovere, ma come possiamo rispondere a quell’ostilità? A mio parere non si tratta solo della crisi di un modello sociale, come scrive Luciano Gallino, ma di un intero sistema di valori, riferimenti e identità culturali. Ci possiamo stracciare le vesti di fronte a questo fenomeno, ma sarebbe troppo facile cavarsela con la solita accusa di apatia nei confronti della società: se la massa non reagisce di fronte allo smantellamento dell’istruzione è anche perché è insoddisfatta di come l’istruzione funziona. Nostro dovere è allora anche cominciare a pensare ad alternative per rispondere a questa crisi di legittimità. Andrew Prescott, in un recente contributo su Humanist, sottolineava come le Digital Humanities possano svolgere un ruolo trainante in questa fase di crisi, coagulando le “migliori difese” contro le argomentazioni che attribuiscono scarsa utilità alle discipline umanistiche. E’ un fatto che la novità rappresentata dalle Digital Humanities stia ricevendo una crescente visibilità, ma a mio parere la vera carica rivoluzionaria di questo ibrido disciplinare non risiede solo nella facoltà di produrre risultati scientifici originali, ma nella capacità di creare un nuovo epistème che scompigli i tradizionali recinti accademici e mandi in frantumi il tradizionale e ormai inservibile modello docente/emittente – destinatario/allievo. Investire nelle Digital Humanities allora non vorrà più dire salvare le scienze umane dall’estinzione accademica, ma rilanciare il loro ruolo nella società.