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Social media approach: razionalità, emotività, politica e voto

Insieme alla razionalità, le emozioni, positive o negative che siano, sono da sempre un elemento che orienta le azioni dell’uomo: politica e voto sono ambiti che non fanno eccezione. Nella comunicazione politica in particolare, il riconoscimento scientifico della centralità del processo di emozionalizzazione è relativamente recente. La dimensione emozionale è emersa con prepotenza nell’ultimo decennio di campagne presidenziali americane: dalla corsa democratica di Obama trasformata in «rappresentazione collettiva», alla hate campaign di Trump mirata a colpire la sfera personale e soggettiva della sua rivale Hilary Clinton.

In una prospettiva generale, si è ormai affermata la tendenza al superamento della dicotomia razionalità-emotività nello studio del comportamento: la centralità dello studio delle emozioni per spiegare decisioni che vanno dal voto espresso in una cabina elettorale all’acquisto di un bene di consumo in un centro commerciale è comune oggi a tutte le scienze sociali e a tutti i campi di indagine. Se la Psicologia delle Folle di fine Ottocento vedeva le emozioni collettive come una leva di intolleranza e un ostacolo al progresso della società (Le Bon 1895), dalla fine degli anni Ottanta del Novecento le scienze sociali hanno superato le dicotomie classiche ragione-emozione e ragione-sentimento (Cepernich 2016): l’intelligenza come facoltà decisionale risulta essere quindi il prodotto dell’azione coesa cui partecipano tanto la razionalità quanto le emozioni.

In L’errore di Cartesio (1995), Antonio Damasio spiega come le circostanze ambientali più irrilevanti e i desideri più nascosti possano generare scenari d’azione impossibili da valutare con la “razionalità calcolista”. Le emozioni, dice Damasio, hanno la funzione di indicare quali problemi la ragione debba affrontare e la supportano nella delimitazione di un set di soluzioni quando il numero delle opzioni disponibili è troppo vasto. Sul piano cerebrale l’agente fondamentale sarebbe il «marcatore somatico»[1], che emetterebbe segnali di allarme sull’esito negativo di una certa azione, restringendo così la gamma delle scelte possibili. Se l’applicazione del principio di razionalità è funzione di specifici sistemi cerebrali che generano emozioni e sentimenti capaci di funzionare da fattore regolativo del comportamento, l’assunto cartesiano della separazione tra mente e corpo crolla. La psicologia cognitiva giunge allo stesso risultato attraverso gli studi dell’intelligenza emotiva[2] di Salovey e Mayer (1997); questi studi attribuiscono alla mente competenze che permettono all’individuo di identificare e gestire le emozioni, e di riconoscere quelle altrui, così da poter organizzare le relazioni in modo efficiente.

Nel campo politico, lo sgretolamento del mito dell’attore sociale razionale inizia con l’abbattimento progressivo dell’elettore come homo oeconomicus di fronte ai dilemmi della scelta di voto, un modello di cui Anthony Downs è stato il primo fautore (Downs 1957). La rilevanza delle emozioni e dei sentimenti nella teoria e nella pratica della ricerca nel campo della comunicazione politica emerge soprattutto in relazione a tre tendenze: (1) la misurazione di un’opinione pubblica qualificata come impulsiva, sentimentale e irrazionale (la cosiddetta «pancia della gente»); (2) la centralità del frame management[3] come strategia di comunicazione elettorale; (3) il riconoscimento su base scientifica dell’influenza dell’ambiente sul comportamento politico e sulla decisione di voto.

Tra i modelli interpretativi dei comportamenti elettorali diversi da quello razionalista, il Columbia approach, guidato dagli studi di Paul Felix Lazarsfeld presso la Columbia University sulle elezioni presidenziali americane degli anni Quaranta (Lazarsfeld et al. 1944), assegna al complesso degli affetti e delle relazioni familiari e sociali dei singoli cittadini la funzione di stabilizzatore delle preferenze politiche. Il ruolo dei media, e la stessa propaganda elettorale, avrebbero un ruolo assimilabile a quello dello sviluppatore di un negativo fotografico: portare alla luce un’immagine già impressa, ovvero una “predisposizione latente” dalla quale emergono convinzioni radicate socialmente e condivise con gli altri membri appartenenti allo stesso gruppo (Giacomini 2016). Anche il Michigan approach, basato sullo studio The American Voter (Campbell et al. 1960), ritiene centrali nella scelta del voto elementi affettivi ed extra-razionali, ma aggiunge la considerazione del partito politico, prima ancora dei mezzi di comunicazione, come mediatore di notizie e formatore di opinioni che la maggioranza dei cittadini-elettori non sarebbe in grado di elaborare in autonomia.

Quando negli Stati Uniti, a partire dagli anni Settanta, i mezzi di comunicazione di massa, e la televisione in primo luogo, diventano uno strumento determinante della propaganda politica, al partito inizia a sostituirsi il candidato, un attore della campagna che, spostando l’attenzione primaria dal contenuto alla rappresentazione, e alla personificazione, rafforza la ricezione emotiva del messaggio. La psicologia sociale ha evidenziato che gli individui, durante il processo di formazione delle opinioni, tendono a usare indizi e scorciatoie in grado di “farli risparmiare” ed evitare loro la fatica di ricercare informazioni più complete e precise: il viso, ad esempio, è uno degli indizi e spesso viene utilizzato come fonte per inferenze sulla personalità (Cavazza 2005).  L’immagine di un leader politico, peraltro, non può essere limitata al volto, ma si atteggia come una rappresentazione cognitiva sintetica che comprende, oltre all’appartenenza politica, aspetti caratteriali legati al comportamento e alla storia personale che il cittadino tiene a mente quando guarda a un politico e al suo messaggio. Drew Westen, a proposito del political brain (Westen 2008), afferma che i soggetti sono toccati esclusivamente da leader che suscitino in loro implicazioni emotive, mentre dal punto di vista delle neuroscienze un messaggio razionale avrà difficoltà ad attivare i circuiti delle emozioni che conducono alle cabine elettorali (Westen 2008).

Il grado di personificazione ed emotività portato dall’affermazione del mezzo televisivo quale spazio privilegiato della comunicazione politica si innalza ancora di più con l’avvento dei social media. All’interno di piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter, i legami tra candidati ed elettori si stringono più diretti in un walled garden che è anche la gabbia di un framing (Lakoff 2006) che riflette una stessa visione del mondo, piegata dai dati in tempo reale a disposizione del leader e del suo team di social media strategist all’orientamento delle reazioni (il sentiment) di fan e follower. Fin dagli anni Duemila, le società di analytics statunitensi offrivano ai partiti politici servizi che consentissero l’acquisizione, l’unione ed il confronto di grandissimi quantitativi di dati raccolti dalle navigazioni sui siti web. I social media da un lato hanno moltiplicato i big data e la potenza di calcolo algoritmico necessaria a una loro azionabilità, dall’altro, concentrando le tracce digitali in un oligopolio della rete in luogo della dispersività del world wide web e assegnando loro un profilo anagrafico in luogo dell’anonimato, hanno reso possibile, come mai in precedenza nella storia della comunicazione, confezionare e distribuire messaggi capillarmente mirati per raccogliere consenso (Han 2016), anticipando le intenzioni di comportamento dei destinatari.

In Italia, la traiettoria evolutiva della propaganda politica dalla TV alla rete e in particolare ai social media è raffigurata, con impeccabile cronologia, dall’analisi dei dati della presenza online dei partiti politici e dei rispettivi leader. Nonostante possa essere considerato di fatto l’auctŏr della spettacolarizzazione della politica e un vero e proprio turning point della comunicazione politica ed elettorale, con lui passata definitivamente dai giornali e dalla TV di Stato alle sue televisioni private, Silvio Berlusconi, il campione della Seconda Repubblica (annunciata in uno storico messaggio televisivo del 1994 trasmesso dalle proprie reti unificate), con l’avvento del web 2.0 e il graduale spostamento dello scenario politico dalla televisione ai social network ha perso irrimediabilmente il passo con i tempi. A parte Facebook, dove ha un milione di fan, la presenza online di Berlusconi è di fatto impercettibile sia su Instagram (213.000 follower) che su Twitter (68.000 follower), eppure più sostanziosa di quella del partito da lui fondato, Forza Italia, essendo Twitter l’unica eccezione per cui il partito ha più seguito del leader.

L’evoluzione personalistica della politica, descritta sopra, trova peraltro conferma se si estende il raffronto ‘leader – partito’ a tutte le maggiori forze politiche nazionali, a cominciare dallo stesso Movimento 5 Stelle, che è stato il vero, primo innovatore digitale della politica con il Blog di Beppe Grillo. Grillo vanta ancora un credito personale (Facebook, quasi due milioni di fan; Instagram, 100.000 follower; Twitter, due milioni e mezzo)[4] superiore a quello del Movimento (Facebook quasi un milione e mezzo di fan; Instagram, 300.000 follower; Twitter, 670.000)[5], ma inferiore a quello del leader investito Luigi Di Maio (Facebook, quasi due milioni e mezzo di fan; Instagram, 854.000 follower; Twitter, 572.000)[6]. Eppure, se si analizza l’uso dei media digitali da parte di Matteo Salvini, il politico italiano oggi più seguito su tutti i principali canali social (Facebook, quattro milioni di fan; Instagram, quasi due milioni di follower; Twitter, più di un milione), assistiamo a un nuovo turning point della comunicazione politica che passa dal tempo del blog a quello di Facebook, Twitter e, soprattutto oggi, Instagram: la personalizzazione lascia tutto lo spazio al personaggio. Il profilo personale non è più, e non tanto, un mero ripetitore di notizie o lo spazio non mediato per commenti personali a vicende politiche, quanto la scena di una narrazione individuale che, umanizzando la figura del politico, accostandola alla vita quotidiana dei follower (le foto insieme ai figli, i pasti in pizzeria), fa leva politica ed elettorale sul loro continuo coinvolgimento emotivo, misurabile in termini di engagement.

Basti pensare al post di Salvini a commento della sparatoria successiva all’omicidio di Macerata del 3 febbraio 2018 (Piccinelli 2018): gli interruttori semantici utilizzati rimandano a scenari negativi (“immigrazione fuori controllo”, “caos sociale”, “droga”, “stupri”), percepiti come reali e presenti, ma ciò nonostante il post è in grado di generare un sentiment positivo grazie all’investimento nella fiducia per il leader sorridente che sistemerà finalmente le cose, una volta che i fan con il voto (e i like) gliene daranno “la forza”. Si tratta delle strategie di content marketing applicate alla propaganda politica: la pianificazione e creazione senza soste di media e contenuti editoriali (curate per il leader leghista da La Bestia, la macchina di comunicazione leghista che nasce a fine 2014 dal team di SistemaIntranet di Mantova, e cioè dalla mente di Luca Morisi, socio dell’azienda, e Andrea Paganella [Forti 2018]) al fine di acquisire non clienti ma elettori e monetizzare la propria presenza online. Un social media approach, potremmo allora definirlo: il negativo fotografico caro a Lazarsfeld che diventa un selfie continuo e sovraesposto nel quale tutti si specchiano e nessuno riflette.


Note

[1]«La mia idea è che i marcatori somatici […] forniscano una rilevazione automatica dei componenti dello scenario che è più probabile siano rilevanti. Dovrebbe risultare così evidente l’associazione tra processi cosiddetti cognitivi e processi chiamati emotivi» (Damasio 1995, p. 247).

[2]L’intelligenza emotiva è definita come quel set di competenze necessarie per identificare, gestire ed esprimere le emozioni, che implica differenze reali o percepite nel grado in cui ciascuno utilizza e processa a livello neuronale le informazioni connotate emotivamente (Mayer, Salovey 1997).

[3]Negli studi sui mezzi di comunicazione di massa, in sociologia e in psicologia, il termine framing si riferisce ad un processo di influenza selettiva sulla percezione dei significati che un individuo attribuisce a parole o frasi; con la locuzione frame management si fa quindi riferimento a tutte quelle strategie volte a incoraggiare certe interpretazioni e scoraggiarne altre.

[4]https://www.facebook.com/beppegrillo.it/, 9 ottobre 2019; https://www.instagram.com/beppe_grillo_/?hl=it, 9 ottobre 2019; https://twitter.com/beppe_grillo, 9 ottobre 2019.

[5]https://www.facebook.com/movimentocinquestelle/, 3 ottobre 2019; https://www.instagram.com/movimento5stelle/?hl=it, 3 ottobre 2019; https://twitter.com/Mov5Stelle, 3 ottobre 2019.

[6]https://www.facebook.com/LuigiDiMaio/, 9 ottobre 2019; https://www.instagram.com/luigi.di.maio/?hl=it, 9 ottobre 2019; https://twitter.com/luigidimaio, 9 ottobre 2019.


Bibliografia

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Campbell A., Converse P.E., Miller W.E., Stokes D.E., The American voter, John Wiley and Sons Inc., 1960

Carlson N.R., Fisiologia del Comportamento, Amherst, 2014

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Ceron, A., Curini, L., Iacus, S.M. e Porro, G., Every Tweet Counts? How Sentiment Analysis of Social Media Can Improve Our Knowledge of Citizens’ Political Preferences with an Application to Italy and France, New Media & Society, 16 (2), 2014

Damasio A. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995

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Feldman R. S. Amoretti G., Ciceri M. R., Psicologia generale, McGraw-Hill Education, 2017

Forti S., “La bestia”, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini, in Rollingstone.it, 13 luglio 2018

Giacomini G., Psicodemocrazia. Quando l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, Mimemis edizioni, 2016

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Le Bon G., Psicologia delle folle, Longanesi, 1895

Mayer, J.D. e Salovey, P., What is Emotional Intelligence?, in P. Salovey e D.J. Sluyter (a cura di) Emotional Development and Emotional Intelligence: Educational Implications, HarperCollins, 1997

Piccinelli F., I segreti della strategia di Matteo Salvini sui sociale network, in Wired.it, 15 febbraio 2018