Siamo in una battaglia e più della metà di essa si svolge sul campo di battaglia dei media»
Al-Zawahiri, 2005
Il 29 giugno 2014 – primo giorno di Ramadan 1435H – in seguito alla caduta della città di Mosul (Iraq) nelle mani dell’Isis, fu annunciata, tramite un comunicato diffuso in rete da parte del portavoce dello “Stato Islamico” Abu Muhammad al-‘Adnani, la rinascita del “Califfato” e la proclamazione a “Califfo” di Abu Bakr Al-Baghdadi.
Pochi giorni dopo, il 5 luglio 2014, nella grande moschea Hadbaa di Mosul, il neo proclamato “Califfo” al-Baghdadi tenne il suo primo discorso, videoregistrato e caricato sul web. «Oh Muslims, the arrival of the month of Ramadhan is a great blessing and grace granted by Allah […] In this month, the prophet Muhammad would prepare the brigades, would mobolize the armies in order to fight the enemies of Allah and to wage jihad against the polytheists»[1], così comincia il suo discorso di ‘insediamento’ (in arabo) davanti ai fedeli, pronunciato come khalīfah.
L’Estate del 2014 e gli eventi a essa collegati, segnano la nascita di una nuova forma di terrorismo e la fine dell’evoluzione e trasformazione cominciata nel 2004 con l’AQI che ha portato alla proclamazione del ‘Califfato nero’: «non più organizzazione, formazione, fronte o quant’altro, bensì “Stato Islamico”, superando così i ‘dubbi’ e le ‘esitazioni’ degli altri movimenti jihadisti, tra cui al-Qaeda […]»[2].
Nessun gruppo terroristico si era mai avvicinato al livello organizzativo e comunicativo di IS.
Mentre al-Qaeda, prima in Afghanistan e poi in Iraq, rimane un parassita all’interno degli Stati in cui opera, lo “Stato Islamico” si fa Stato: i militanti di IS si sono appropriati del monopolio della forza fisica e la esercitano sulla popolazione, volente o nolente, che si trova nei territori siriani e iracheni conquistati.[3] Tutto ciò è ripreso, registrato, adattato alla propria narrazione e poi condiviso e diffuso su internet.
Ci troviamo di fronte a un’organizzazione che, inizialmente sconosciuta al pubblico internazionale, nel giro di pochi mesi, a partire dall’estate del 2014, è riuscita ad ‘invadere’ lo spazio mediatico di tutto il mondo: computer, televisione, giornali, ovunque si parla dell’autoproclamato “Stato Islamico”. Isis in questo modo si è trasformata in un vero e proprio international brand, con il suo logo (la bandiera nera) e, soprattutto, con i suoi follower.
Gli strumenti che Daesh utilizza per la diffusione dei propri messaggi sono molteplici, dai magazine online alla radio ai filmati creati dalle società di produzione caricati in Rete e poi fatti circolare dai social network. Gli organi disseminati nei vari territori sotto il controllo e affiliati all’Isis raccolgono le informazioni, i video, le testimonianze, e tutto ciò che risulti utile ed utilizzabile; questi vengono inviati ai centri di produzione principali, i quali selezionano le immagini e i contenuti più efficaci creando le propagande che verranno diffuse.
L’ampia gamma di prodotti mediatici che compongono l’universo propagandistico di Daesh sono pensati e costruiti per raggiungere diverse tipologie di destinatari, per conseguire determinati obiettivi e per provocare una specifica reazione nello spettatore: «nello specifico a) attrarre nuovi sostenitori e spaventare i nemici; b) polarizzare il pubblico internazionale; c) sostenere la rilevanza globale del proprio gruppo sia all’interno che all’esterno della sfera jihadista; d) dotare i propri reclutatori di materiale e “prove” per convincere nuove reclute a sposare il progetto politico del califfato»[4].
La propaganda per conquistare il favore della popolazione posta sotto il proprio controllo è quella probabilmente più impegnativa e a cui, soprattutto all’inizio, è stata rivolta più attenzione. Questo perché non bisogna dimenticare che Isis si differenzia dalle altre organizzazioni terroristiche in quanto si vanta di essere Stato, ha quindi bisogno di legittimarsi agli occhi di coloro che pretende di governare e per farlo deve raffigurarsi non solo come “materialmente” più potente, ma anche come alternativa allettante rispetto a ciò che offrivano i governi precedenti. In altre parole l’uso della forza non basta.
Così IS comincia a diffondere video e foto in cui è raffigurata la quotidianità nel Califfato. Nei mujatweets[5] vediamo i mujaheddin che distribuiscono beni di prima necessità, i bambini che vanno a scuola, tutti sono sorridenti, tutti sono felici, tutto è sotto controllo nello Stato Islamico; le armi ci sono, ovviamente ma sullo sfondo, per proteggere e non per attaccare. In questo modo IS raggiunge un doppio obiettivo: non solo ottiene legittimazione da parte della popolazione locale, ma attrae i potenziali sostenitori. Quelle immagini veicolate sulla Rete sono efficaci come uno slogan, “Venite, unitevi allo Stato Islamico; questi sono i risultati! E chi non vorrebbe vivere in un luogo così?”.
Questo ci porta ad analizzare un’altra grande porzione dei prodotti mediatici di Daesh, quella studiata per la comunicazione con il mondo islamico che vive al di fuori del Califfato. In questo caso gli obiettivi da raggiungere sono molteplici: da una parte affascinare e attrarre i possibili sostenitori e quindi radicalizzare e reclutare nuovi foreign fighters, e dall’altra intimidire tutti quei musulmani che sono contrari al progetto politico di IS.
Isis si rappresenta come l’obiettivo ultimo verso cui ciascun vero musulmano deve tendere e sollecita tutti i credenti a emigrare nelle aree sotto il suo controllo, unendo le loro forze a quelle del califfato e supportando lo “Stato Islamico” in ogni modo possibile[6]. Ma per convincere i possibili sostenitori a diventare membri attivi occorre aggiornare e adeguare gli strumenti della propaganda. Il supporto al califfato si basa su motivazioni diverse dal punto di vista politico, religioso e ideologico per cui la comunicazione deve toccare diversi temi per attrarre più individui possibili. Vengono proposti video delle battaglie, delle vittorie contro il “nemico” per convincere coloro che desiderano una vendetta, una rivincita dell’Islam; la maggior parte dei filmati utilizzano scenografie da film d’azione o videogames per attrarre un pubblico giovane; i mujaheddin rappresentati come eroi servono ad emozionare coloro che desiderano riscattarsi da una vita mediocre; allo stesso tempo la rappresentazione di un “vero” Stato Islamico basato sulla sharia, invoglia chi è deluso dalla vita e dalle leggi del mondo occidentale: «propaganda alone does not act as an agent of either radicalisation or recruitment; no curious observer graduates from potential recruit to active member without direct engagement from another party, either on- or offline. However, what propaganda does do is facilitate and catalyse the process»[7]. Verso gli oppositori in ambito musulmano – sciiti iracheni e siriani e i loro alleati, le minoranze etniche e religiose del Medio Oriente, stati come l’Egitto e l’Arabia Saudita – e verso gli avversari nella lotta per l’egemonia all’interno del jihadismo globale quali Al-Qaida e le altre associazioni terroristiche, IS utilizza la comunicazione dell’orrore per spaventare e minacciare, con uccisioni sistematiche di coloro che non ne accettano l’autorità. Infine, per quanto riguarda la propaganda verso la popolazione globale non musulmana, in particolare verso il pubblico e i governi occidentali, i messaggi ad essi destinati sono notevolmente incrementati: dopo i primi attentanti in Francia e in Occidente in generale, la guerra al “nemico lontano” è diventata importante quanto quella al “nemico vicino”.
Tuttavia, l’obiettivo che Daesh vuole perseguire in questo caso non è solo quello di terrorizzare il mondo occidentale, ma anche quello di fare contro-informazione, confutando ciò che i media europei e statunitensi ci mostrano. A tale scopo viene utilizzato John Cantlie[8], giornalista inglese catturato dall’Isis e divenuto il volto e la voce della propaganda. Funzionale per la riuscita della strategia mediatica «jihadisti e i propagandisti di madrelingua inglese sono divenuti fondamentali […], trasmettendo all’occidentale il concetto “ti siamo più vicini di quanto tu non lo sia a noi”»[9].
Tra gli strumenti mediatici di maggior successo ci sono i magazine. Nel gennaio del 2010 viene pubblicato il primo numero di Inspire, «the Periodical Magazine issued by the al-Qā’idah Organization in the Arabian Peninsula» (Inspire 2010). Inspire è la rivista storica del quadismo: moderna, a colori e ricca di fotografie e soprattutto in lingua inglese testimoniando così che il bersaglio è un pubblico giovane, moderno e radicale[10]. Finora ne sono stati pubblicati sedici numeri, l’ultimo risalente all’estate 2017, sempre più attraenti: la grafica migliora a ogni uscita, l’attenzione a ogni dettaglio dai colori all’impaginazione potrebbe fare invidia ai più venduti magazine occidentali. Ma la svolta si ha con Dabiq, la versione IS di Inspire che rielabora ancora meglio il primo magazine qaidista: più patinato, più sofisticato, più internazionale, tradotto in diverse lingue oltre all’arabo e l’inglese. Il livello d’innovazione introdotto da Dabiq[11] è sicuramente elevato rispetto a ciò che l’ha preceduto; dal punto di vista redazionale – nonostante ci sia una forte componente dottrinale e continue considerazioni filosofico-religiose – il modo in cui vengono trattati i diversi temi e contenuti ricorda molto le riviste europee o americane. Il magazine di Daesh ha il compito di veicolare e diffondere non solo strategie e bersagli, ma soprattutto la visione radicale del califfato. Dal primo numero uscito nell’estate del 2014 con la proclamazione del califfato, sono stati pubblicati in tutto quindici numeri, l’ultimo risalente al Luglio 2016. I prodotti mediatici che però hanno più impatto sul pubblico e che risultano più efficaci per il compimento della strategia di IS ci sono sicuramente i video e i filmati. Ognuno di essi è pensato per raggiungere determinati scopi: terrorizzare e minacciare, informare e contro-informare, radicalizzare e reclutare. Tra i più rilevanti troviamo sicuramente Flames of War[12], il documentario ufficiale dello Stato Islamico pubblicato nel settembre del 2014. Il filmato è prodotto e diffuso da al-Hayat Media Center e dura quasi un’ora, la qualità delle immagini è discreta e il montaggio non ha molto da invidiare a film o documentari di produzione occidentale. È girato tutto in lingua inglese e sottotitolato in arabo in quanto destinato al pubblico occidentale e ha lo scopo di comunicare la capacità militare e gli obiettivi del Califfato e di confutare le affermazioni di coloro che vi si oppongono. “Fighting has just begun” – “La lotta è appena cominciata”: è il sottotitolo del video e viene ripetuta molto spesso durante tutta la narrazione. Il filmato alterna il tema militare a discorsi pronunciati da personaggi occidentali nemici o a interviste di mujaheddin e foreign fighters. Ogni volta che vengono riportate le parole degli oppositori, il narratore urla “They lie” – loro mentono. Da Barack Obama che annuncia il ritiro delle truppe dall’Iraq alle opinioni di figure eminenti dell’Islam che criticano IS e non ne riconoscono la legittimità, la voce narrante tuona additandoli come bugiardi, infamatori e apostati. Con questo video il Califfato si assicura un ampio impatto sul pubblico, soddisfacendo i sostenitori con le raffigurazioni delle vittorie e utilizzando un’estetica eroica e sempre vincente, indirizzando chi non è del tutto convinto tramite la confutazione delle affermazioni dei suoi avversari politici e infine terrorizzando e minacciando gli oppositori con le prove di ciò che accade a chi osa sfidarlo.
Possiamo quindi dire che, dalla sua istituzione in poi, la macchina di propaganda dello Stato Islamico ha ripetutamente dimostrato la sua sofisticatezza e complessità. IS ha abbandonato i metodi fatiscenti comuni ai suoi rivali – come le videocassette di Bin Laden – a favore di video di alta qualità meticolosamente pianificati, con una regia accurata e una sceneggiatura disegnata ad hoc. Le scene vengono provate più volte andando avanti per diverse ore, le stesse vittime sono obbligate a recitare, hanno un copione da seguire e solo dopo che il regista è soddisfatto avverrà l’uccisione. Lo spettatore così non ha alternative, l’adrenalina prodotta da quelle immagine lo costringe a rimane incollato allo schermo in attesa di scoprire cosa succederà: uccideranno qualcuno? Come lo uccideranno? Cosa succederà dopo? Ovviamente anche i social media da anni ormai svolgono un ruolo essenziale nella strategia operativa jihadista; Ayman al-Zawahiri nel suo primo discorso come capo di al-Qaida lodava i guerrieri della jihad mediatica in quanto soldati nascosti e ignoti ai più, ma che hanno lasciato il loro segno nel mondo[13].
I social network (in particolare Twitter) sono diventati, in parallelo alle moschee estremizzate, lo spazio in cui ci si radicalizza, incrementando potenzialmente il bacino di utenti reclutabili.
Radicalizzare e reclutare sono tra gli obiettivi primari dell’Isis, sia per aumentare le fila dei combattenti all’interno del sedicente Stato Islamico sia per promuovere atti emulativi nel resto del mondo. Per questo motivo strategia politica e mosse mediatiche vanno di pari passo seguendo la stessa logica. Il califfo deve fare nuovi proseliti, richiamare fedeli da tutto il mondo[14].
Il successo dell’Isis consiste anche in questo, essere riuscito a creare un progetto attraente per una vasta gamma di profili: criminali che vivono ai margini della società e laureati che lavorano in alcune delle più prestigiose istituzioni del continente, oppure ancora teenager e cinquantenni, convertiti senza alcuna conoscenza dell’islam e musulmani con diplomi in teologia islamica, uomini e donne.
Grazie ad internet si ha tutto a portata di mano, all’interno del nostro smartphone non serve andare in Siria per radicalizzarsi, non serve trovarsi sul campo di battaglia per imparare ad usare un fucile né tanto meno per imparare a costruire una bomba casalinga. Il privilegio della comunicazione globale si trasforma in un’arma in grado colpire chiunque, in qualunque momento e in qualsiasi spazio.
Non è tanto la partenza dei combattenti stranieri ad essere così temibile, quanto il momento del loro ritorno a casa. Ovviamente non tutti quelli che tornano dal Califfato hanno intenzione di diventare dei terroristi anzi, l’evidenza empirica dei precedenti conflitti dimostra che solo un’esigua minoranza di foreign fighters è risultata coinvolta in attività terroristiche dopo il ritorno in patria.
Il problema vero e proprio è dunque rappresentato da coloro che tornano con l’intenzione di compiere atti terroristici nei paesi di appartenenza. È proprio questa categoria che spaventa la comunità Europea e internazionale e che fa percepire il fenomeno dei foreign fighters come una grande minaccia. Questi uomini di ritorno dalla Siria, addestrati e radicalizzati, sono vere e proprie mine vaganti e, come loro, anche i cosiddetti terroristi homegrown: individui che in condizioni di disagio sociale e magari di precario equilibrio psichico, si avviano al jihad apprendendo le tecniche operative sul web, trasformandosi in ‘lupi solitari’. Nonostante Daesh preferirebbe che i combattenti si trasferissero all’interno dello Stato Islamico per aumentare la sua influenza sul “proprio” territorio, non sottovaluta l’impatto di un attentato in Occidente anzi: dal 2014 ha rivendicato ogni episodio di terrorismo avvenuto dentro e fuori l’Europa, assicurandosi che gli attentatori fossero riconosciuti quali combattenti fedeli alla bandiera nera. Ogni volta che un individuo porta a termine un attentato, questo funge da propaganda: le immagini diventano immediatamente virali, favorendo l’imitazione tra i giovani scontenti delle periferie, che, guardando l’azione di questi terroristi, prendono appunti.
Nell’ultimo anno la situazione si è decisamente modificata: nell’estate del 2017 Mosul e Raqqa sono state riconquistate e negli ultimi mesi quasi tutti i territori sotto l’influenza di IS sono finalmente liberi; continuano le battaglie, soprattutto in Siria, ma la loro quantità ed entità è molto diminuita.
Sul piano della legittimità la perdita di territori rappresenta un duro colpo per al-Baghdadi poiché la sua rivendicazione della dignità califfale si basa in buona parte sulla capacità di esercitare la sua autorità su quei luoghi.
Per sopperire a queste perdite l’impostazione del gruppo jihadista sta abbandonando progressivamente l’iniziale enfasi posta sul controllo territoriale per passare ad un’idea di Califfato come pura entità organizzativa in grado di persistere come ideologia al di là della sua concreta territorialità. Lo stesso Mohammed al-Adnani, il portavoce dell’IS, ha ribadito questi concetti preparando la propria audience alle prossime inevitabili sconfitte sul campo e proclamando, in un modo piuttosto contraddittorio rispetto al recente passato, come il gruppo non combatta il jihad “per difendere, liberare o conquistare territorio”, e ha profetizzato la capacità di quest’ultimo di essere in grado di andare avanti anche dopo la perdita di Raqqa e Mosul o nel caso dell’uccisione dei suoi leader.
Questi eventi sono indicatori di come il gruppo stia tornando alla sua originale caratterizzazione di movimento prettamente terrorista/insurrezionale, in grado questa volta di moltiplicare la portata dei propri attacchi grazie alla capacità intatta di far leva sulla miriade di sostenitori e affiliati che operano al di là dei sui territori chiave in Siria e Iraq[15].
Questi cambiamenti sono evidenti anche a livello mediatico: la vita nel califfato non è più rappresentata e nei video ormai si vedono solo le città in macerie. La violenza è diventata il fulcro dei messaggi veicolati. Il nuovo documentario di IS Flames of War II: Until the final hour[16] datato 27 Novembre 2017, è se possibile più cruento del precedente e l’alternanza tra temi militare e discorsi dei nemici occidentali è quasi scomparsa, lasciando lo spazio maggiore alle scene dei combattimenti e delle uccisioni.
IS, quindi, nonostante abbia perso i presupposti per definirsi Stato, sul campo di battaglia dei media continua a sbaragliare i nemici. In Europa e in America non ci sentiamo più davvero al sicuro e questo perché, a livello comunicativo, lo Stato Islamico ha vinto e continua a vincere, riuscendo a coinvolgere il mondo intero in una guerra ideologica e mediatica ancora prima (e forse più) che militare.
[1] Abu Bakr al-Baghdadi (2014). Caliph of the Islamic State, Conflict Studies, (https://www.youtube.com/watch?v=R09FmLnWC8E)
[2] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.7
[3] Max Weber definisce lo Stato moderno come «quella comunità umana la quale, nell’ambito di un determinato territorio pretende per sé il monopolio legittimo della forza fisica» (Weber, 1922).
[4] Amorosi, A. et al. (2016). Il terrore che voleva farsi Stato, Roma, Eurilink, p.147.
[5] Brevi video in cui vengono riprese scene della vita di tutti i giorni.
[6] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.169.
[7] Winter, C. (2015). The virtual ‘caliphate’: understanding Islamic State’s propaganda strategy, London, The Quilliam Foundation, p.35.
[8] Ad oggi non si hanno informazioni univoche sulla sorte subita da John Cantlie con la perdita di territori di IS.
[9] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.175
[10] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.113
[11] La scelta del nome non è casuale: Dabiq è una piccola città siriana, in prossimità del confine settentrionale con la Turchia, conquistata da IS nella battaglia dell’agosto 2014. Nonostante non abbia alcun valore strategico dal punto di vista militare, Dabiq ha un ruolo importante per l’Islam in quanto compare nella Sunna all’Hadith 6924: «Le Ultime Ore non arriveranno fino a quando i Romani non saranno ad al-A’maq, a Dabiq. Un esercito costituito dai migliori soldati delle genti della terra arriverà allora da Medina. E questi combatteranno e un terzo dell’esercito fuggirà via, e Allah non lo dimenticherà mai. Un terzo sarà ucciso e sarà costituito da martiri eccellenti agli occhi di Allah. Un terzo messo alla prova vincerà e sarà conquistatore di Costantinopoli»
[12] KIWalid, Flames of War, (2014, September 20), https://www.liveleak.com/view?i=5c2_1411222393
[13] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.136
[14] Maggioni, M. e Magri, P. (2015). Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Milano, ISPI, p.154
[15] Carlino L. (2016). Isis: fine del proto-stato e ritorno alle origini, Ispi (http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/lisis-si-prepara-cambiare-pelle-15596)
[16] The Islamic State (2017). Flames of war II, Jihadology (http://jihadology.net/2017/11/29/new-video-message-from-the-islamic-state-flames-of-war-ii/)