La prima notizia di oggi è che i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), ovvero le cosiddette “economie emergenti” del pianeta, dal 2015 avranno una loro banca. La neonata istituzione finanziaria nasce come sfida diretta alla supremazia occidentale incarnata, a partire dal dopoguerra, da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. I BRICS hanno inoltre firmato accordi in altri settori e aspirano a dotarsi di una loro agenzia di rating, un loro circuito finanziario e una “Internet privata” che aggiri il traffico che passa obbligatoriamente dai nodi USA. D’altra parte l’assetto geopolitico dell’industria delle telecomunicazioni è noto: i maggiori fornitori e proprietari di connettività al mondo sono i cosiddetti “tier 1 providers” (T1P). La loro rete è così vasta che non hanno bisogno di comprare “transit agreements” da altri provider. Sebbene gli intrecci finanziari e commerciali fra questi colossi non siano pubblici, i T1P ufficialmente dovrebbero essere quattordici, ma secondo alcuni il cuore della dorsale è in mano a sette sorelle: Level 3 Communications (USA), TeliaSonera International Carrier (Svezia), CenturyLink (USA), Vodafone (UK), Verizon (USA), Sprint (USA), e AT&T Corporation (USA).
È evidente che i BRICS non siano molto favoriti da questa situazione. Essi rappresentano un quarto del Prodotto Interno Lordo del pianeta, il 43% della popolazione (3 miliardi di persone) e possiedono riserve in valuta pregiata per 4,400 miliardi di dollari. E da tempo si parla di allargare il gruppo ad altri paesi emergenti, come per esempio Turchia e Indonesia (con tassi di crescita del PIL intorno rispettivamente al 5% e 6% annui).
La seconda notizia non è nemmeno una notizia, ma un’eccellente sunto sulla situazione del “costo della conoscenza” a cura dell’infaticabile Joaquín Rodríguez. Traduco, con qualche aggiunta, quanto scrive Joaquín:
“Fra i primi cinque gruppi editoriali del mondo, tre si dedicano alla pubblicazione di contenuti scientifico-tecnico-professionali e alla gestione e identificazione di informazioni utili per comunità altamente qualificate che necessitano di contenuti aggiornati. La anglo-olandese Reed Elsevier (fra le altre cose promotrice di Science Direct e Scopus), l’americana Thomson-Reuters (produttrice di Web of Science) e Wolters Kluwer (azienda olandese che si è fusa col gigante tedesco Bertelsmann & Springer, facendo nascere Springer Science+Business). Si tratta di tre giganti che non soltanto fatturano cifre inconcepibili per editori che lavorano in altri settori [Reed Elsevier nel 2013 ha fatturato 7,2 miliardi di dollari, n.d.t.] ma, soprattutto, dominano e controllano la produzione, circolazione e uso della conoscenza prodotta dalla comunità scientifica.”
Ma che cosa c’entra la banca BRICS con il dominio anglosassone (e anglofono) della conoscenza? E soprattutto, qual è il nesso con le Digital Humanities? Facciamo un passo indietro. Nel marzo 2014, in seguito a una mail di insulti inviata “accidentalmente” alla lista di discussione dell’Associazione di Informatica Umanistica e Cultura Digitale (AIUCD), mi sono dimesso dall’omonima associazione. Non è utile qui ripercorrere le tappe di questa spiacevolissima (almeno per me) vicenda, che pone fine a una storia di amicizie e collaborazioni ventennali, ma occorre tuttavia comprendere le ragioni profonde di quello scontro, dove si sono confrontate due visioni geopolitiche divergenti. In ballo a mio parere vi era molto di più di una valutazione sull’opportunità o meno dell’affiliazione all’associazione europea (EADH), ma (vedi mia mail di risposta):
“tre livelli di problemi fra loro strettamente interconnessi: 1) un problema squisitamente politico, ovvero la rappresentanza di AIUCD e delle altre organizzazioni nazionali all’interno degli attuali contenitori (per noi, ADHO e EADH), nonché del funzionamento degli stessi; 2) un problema di rappresentazione delle diversità culturali, linguistiche, disciplinari, ecc. all’interno e all’esterno delle organizzazioni; 3) un problema di presenza scientifica delle ricerche non-anglofone all’interno del panorama internazionale delle DH.”
Purtroppo non è stato possibile discutere di queste cose in un’assemblea plenaria (come per altro aveva promesso pubblicamente il presidente), ma si è preferito procedere in modo autoreferenziale, siglando l’accordo con EADH senza ratifica da parte dell’assemblea. Sebbene il direttivo non fosse tenuto a farlo per “statuto”, lo avrebbe dovuto fare, credo, in primis per rispettare la parola data e poi per rafforzare la partecipazione dei suoi associati, che così invece sono stati tagliati fuori. Detto questo, quello che mi preme analizzare qui non è il fair-play di AIUCD, ma la debolezza delle ragioni (e dei ragionamenti) che stanno dietro certe scelte. È evidente che questa fretta celasse l’ansia e la paura di essere “tagliati fuori” dal gioco “internazionale”, rappresentato, almeno nella visione di chi ha voluto l’accordo, dalle supposte centrali di legittimazione EADH/ADHO. D’altra parte l’elenco dei “vantaggi” fatto da autorevoli membri del direttivo sembrava abbastanza scarno (e soprattutto vago). Come osservavo nella mia mail del 10 febbraio
“l’affiliazione a EADH è tuttosommato un problema secondario. Il vero nodo a mio parere continua a essere ADHO, un organismo che si definisce internazionalmente rappresentativo delle Digital Humanities, ma creato da “constituent organisations” le quali decidono chi entra, come e perché. E’ vero che c’è un dibattito in corso e che le cose sono in movimento. Abbiamo letto su Humanist che è possibile affiliarsi in modo individuale senza adesione alla rivista LLC, ma la cosa non è chiara. Sulla lista del gruppo GO::DH ha scritto un collega cubano che voleva iscriversi e ha ricevuto incoraggiamenti vari. Ma perché se sono un cittadino cubano o poniamo uzbeko posso affiliarmi individualmente e se sono italiano, spagnolo o tedesco devo passare attraverso EADH? L’intenzione esplicita è quella di incoraggiare le affiliazioni senza l’obbligo di abbonarsi alla costosa rivista, ma questo non mette minimamente in discussione il modello chiuso di ADHO, ma anzi lo rafforza. E d’altronde questo l’unico modo per aprire mantenendo il controllo. (Per inciso: 7 membri su 9 dello Steering Committee di ADHO provengono da UK, USA, Australia e Canada. Uno dal Giappone e uno dalla Germania.)”
In sostanza, e qui mi avvio alle conclusioni, la scelta di ADHO, e dunque dell’associata EADH, sembrerebbe quella di mantenere saldamente nelle proprie mani il controllo sulle Digital Humanities, cercando di diffondere una immagine “internazionale” della comunità, i cui strumenti però continuano a essere tutti anglofoni: la conferenza annuale DH (vedi post precedente), la mailing list Humanist, la rivista LLC, le monografie più o meno sponsorizzate (tipo Companion). Per non parlare di software, linguaggi e cosidetti “standard”, da UNICODE a TEI. Come scriveva George Steiner in After Babel
“the meta-linguistic codes and algorithms of electronic communication which are revolutionizing almost every facet of knowledge and production, of information and projection, are founded on a sub-text, on a linguistic ‘pre-history’, which is fundamentally Anglo-American (in the ways in which we may say that Catholicism and its history had a foundational Latinity). Computers and data-banks chatter in ‘dialects’ of an Anglo-American mother tongue.”
È questo “Anglo-American Esperanto” che permette di declinare e strutturare l’impero della conoscenza in proporzioni e secondo modalità mai sperimentate prima nella storia (nemmeno dal cattolicesimo romano…). Mi domando: è questo ciò che conviene a italiani, spagnoli, portoghesi, francesi e in definitiva a tutto il resto del mondo? La mossa dei BRICS, creare una banca, non è solo com’è ovvio una mossa economica, ma un segnale geopolitico (e culturale): Cina, India, Brasile, Russia e molti altri grandi paesi del mondo sono a favore di un mondo multipolare. Stati Uniti, Europa e i loro (sempre meno controllabili) satelliti, al momento, no. Dal punto di vista geolinguistico, nessuno dei paesi BRICS, nemmeno la Cina, sarebbe in grado di imporre la propria lingua al resto del mondo. Mentre è chiaro il vantaggio assoluto dei “proprietari” dell’attuale lingua franca e degli immaginari a essa collegati. Ovviamente non possiamo sapere se i BRICS si opporranno, dopo il monopolio sul prestito e sulla rete, anche a quello sulla conoscenza. Ma un nuovo giocatore in campo è un buon auspicio. Nel prendere decisioni che riguardano il minuscolo orticello della DH, possiamo continuare a ignorare quanto sta accadendo nel mondo e le connessioni che attiviamo – o meno – con le nostre scelte? Possibile non vedere che dal datagate allo strapotere delle multinazionali editoriali, da Monsanto a Google, c’è un filo rosso che unisce il problema dell’accesso alla conoscenza con quello della rappresentanza politica, la difesa del seme autoctono alla difesa della parola locale? Quali lingue, quale cibo, quali memorie sopravviveranno nel futuro? E chi sarà a deciderlo? Il problema della diversità bioculturale si intreccia allora a quello degli interessi energetici, alimentari, tecnologici, ecc. e la comunità scientifica — tutte le comunità scientifiche — sono chiamate a prendere posizione rispetto a un mondo che cambia – ed a un altro che non ne vuole sapere di cambiare. Il titolo provocatorio che ho dato a questo post, al di là di ogni semplificazione e generalizzazione, cerca semplicemente di ribadire un concetto: c’è uno squilibrio nelle forze in campo e abbiamo un disperato bisogno di riequilibrare il sistema. La mia perplessità sull’adesione a EADH da parte dell’associazione italiana non si basava altro che su questo: una visione diversa del rapporto centro-periferie (a iniziare dalla problematicità di queste definizioni), il rifiuto di una subordinazione ai temi di ricerca mainstream, l’esplorazione di alleanze alternative e in definitiva la creazione di un progetto culturale che uscisse fuori dai limiti imposti dalla fretta, dalla paura e dall’ansia di legittimazione.