L’avanzamento della conoscenza dipende dalla scienza, dalla società o da entrambe? La relazione fra le due certo non è mai stata idilliaca, ma come si sta trasformando sotto l’influsso della rete? Sono queste alcune delle questioni fondamentali discusse nel bel libro di Antonio Lafuente, Andoni Alonso e Joaquín Rodríguez, ¡Todo sabios! Ciencia ciudadana y conocimiento expandido, Madrid, Cátedra, 2013 (malamente tradotto: Tutti eruditi! Scienza cittadina e conoscenza diffusa), un lavoro militante frutto della vivacità iberica sul tema dei beni comuni e che si inserisce – a mio parere – nel solco dei fermenti del cosiddetto 15-M. Il volume si articola in tre parti: Open Agorà, Open Science, Open Nature. Prendendo forse come spunto una divisione aristotelica, affronta una parte “etico-politica” (significato sociale della scienza, Open Data e Open Edition), una parte “metodologica” (dove si discute di modelli e pratiche di scienza 2.0 o scienza partecipativa) e una parte “fisica” (dove si parla soprattutto di medicina e salute). Le tre parti in realtà sono fortemente connesse, ma qui vorrei soffermarmi su alcuni temi che stanno a cuore all’umanista digitale. Sebbene non si tratti di un libro di informatica umanistica, i legami con le DH sono espliciti, come testimonia la citazione a p. 32 del Digital Humanities Manifesto 2.0. Ma soprattutto lì dove affronta i problemi della pubblicazione scientifica e del collegato processo editoriale. Dopo una breve disamina storica (interessante la riflessione sull’impact factor come meccanismo di gerarchizzazione dei membri della comunità, pp. 26-27), gli autori propongono un nuovo modello pubblicazione scientifica basata su tre elementi:
“Il tridente di questa nuova pubblicazione scientifica dovrebbe essere formato da: 1) la gestione digitale dei contenuti, ovvero su supporti dotati di applicazioni che permettano di sfruttare i documenti in modo molto più ricco (…) capaci di generare una rete di conoscenze condivise; 2) la liberazione dei contenuti, mettendoli a disposizione della comunità scientifica con licenze Creative Commons (…); 3) la creazione di grandi piattaforme pubbliche di conoscenza che aggreghino la produzione di centri di ricerca pubblici, possibilmente evitando la privatizzazione di servizi che restringano l’accesso ai contenuti.” (p. 28; trad. e grassetti miei)
Il tema della trasformazione della pubblicazione scientifica e dei suoi criteri interni ed esterni di legittimazione è stato affrontato in modo interdisciplinare in un numero di Social Epistemology dove le curatrici, fra l’altro, avevano coniato l’espressione “irresponsabilità epistemica” (una posizione assai vicina a ¡Todos Sabios!): “a system of norms for publishing that encourages today’s researchers to submit to peer-reviewed journals while discouraging them to write for Wikipedia is an epistemically irresponsible system that should be challenged by researchers” (Origgi e Simon 2010, p. 146). Condivido in gran parte quest’idea nonché il modello proposto sopra, purché vengano accompagnati da una consapevolezza critica degli strumenti di rete (lo scandalo datagate pone grossi interrogativi sulla reale funzione dei social media, ecc.). Anche se il libro di Andoni et al. offre un efficace ventaglio di proposte ed esempi, a volte eccede nell’entusiamo, evitando di affrontare il “lato oscuro” dei social network e sorvolando su alcune questioni essenziali, fra cui la definizione di conoscenza come bene comune, il controllo delle infrastrutture di rete, la proprietà delle applicazioni e dei sofware, la loro componente geopolitica e linguistica e il connesso problema del digital divide – sul quale tornerò fra un momento.
L’inevitabile illusione ottica di questi ottimismi (anche in Origgi et al.) è che la rete sia all’origine della crisi di legittimità e legittimizzazione della scienza e dei suoi strumenti valutativi, una classica tesi deterministica che non può essere condivisa. Questo non per negare le opportunità di internet, ma per sottolineare la necessità di tenere sott’occhio gli assetti di potere, sia materiali sia simbolici (tanto per ricordare Pierre Bourdieu, autore caro a Rodríguez). E tuttavia è innegabile che “anche quando la scienza necessiti autonomia per il suo progresso, non può farlo a scapito della società, poiché il sapere è solo vana erudizione quando non serve per gettare le basi per una migliore convivenza, quando non serve per offrire un accesso egualitario alle risorse comuni e condivise, quando non garantisce a tutti lo stesso potere” (p. 30).
I tre studiosi sono naturalmente consapevoli delle differenze fra scienziati e cittadini: “Agli albori della scienza moderna, nel XVI e XVII secolo furono gli amateurs (o aficionados) a sostenere lo sviluppo scientifico e a contribuire alla sua diffusione ed espansione (…) ma l’amateur scientifico non ha nulla a che vedere con il cittadino inquieto per gli organismi geneticamente modificati o i cambiamenti climatici, né vuole sostituirsi agli esperti. Egli al contrario confida negli scienziati, ma in quanto “tecnocittadino informato”, esige che la scienza sia sottoposta al controllo pubblico” (pp. 89-91, corsivi miei). È questo uno dei nodi chiave del libro, eppure ci si domanda: siamo davvero pronti per questa e-cittadinanza informata, attiva e consapevole? O non siamo piuttosto di fronte ancora a strumenti e applicazioni dominati da una (contro?-)élite economicamente e geograficamente connotata? Un modo sicuro per essere accusati di passatismo è quello di ricordare qualche cifra, ma correrò questo rischio. Leggiamo per iniziare la tabella che ho ricavato dagli indicatori della Banca Mondiale.
I dati fotografano la situazione per aree geografiche e fasce di reddito, mostrando il persistere di un evidente (quanto scontato) digital divide a livello globale. Tuttavia il digital divide non si riduce alla diseguaglianza economica fra stati, ma è un problema interno agli stati, che riguarda età, istruzione, genere, gruppo etnico, ecc., com’è evidente nel caso degli USA. L’amara constatazione di due esperti come Witte e Mannon (Internet and Social Inequalities, Routledge, 2009) è che “a technology that is designed to be decentralized and democratic ends up maintaining and even expanding inequality.” Ma entriamo nello specifico del caso europeo, consultando i dati dello Information Society database della UE. Partiamo da Households – Level of Internet access, ovvero le cifre sull’accesso a Internet nelle abitazioni private (non imprese): nel 2012 il 63% degli italiani, il 68% di spagnoli, il 54% dei greci, il 61% dei portoghesi e il 54% dei rumeni hanno avuto accesso a Internet da casa, contro il 70% dei polacchi, l’80% dei francesi, l’85% dei tedeschi, l’87% dei britannici, il 92% degli svedesi e il 94% degli olandesi. La media dei 28 paesi UE è 75%. Passando all’uso individuale (Individuals – Internet use in the last 12 months), abbiamo un abbassamento per Italia (58%), Romania (50%) e Polonia (65%), mentre quasi tutti gli altri paesi citati incrementano le percentuali o rimangono pressoché invariate: Spagna 72%, Grecia 56%, Portogallo 64%, Francia 83%, Germania 84%, Regno Unito 89%, Svezia 94%, Olanda 93%. I dati sulla frequenza settimanale (che la UE definisce “digital inclusion“) sono più bassi, con l’Italia sempre in coda col 53%, Spagna 65%, Grecia 50%, Portogallo 56%, Francia e Germania 78%, Regno Unito 84%, ecc. L’ultimo dato interessante che vorrei citare è quello dell’interazione in rete fra cittadini e pubblica amministrazione (Internet use: interaction with public authorities – last 12 months). Qui la forbice fra Italia e resto d’Europa si allarga, sebbene sia tutto il vecchio continente a essere indietro (la media UE a 28 è 44%): Italia 19% (era al 23% nel 2010!), Spagna 45%, Grecia 34%, Portogallo 39%, Romania 31%, Polonia 32%, Francia 61%, Germania 51%, Regno Unito 43%, Svezia 78%, Olanda 67%.
In Italia siamo particolarmente sensibili al tema della reale capacità di interazione dei cittadini con la rete (vedi il caso Grillo), ma sebbene queste cifre non giustifichino un pessimismo a oltranza, né ci autorizzino a diffidare della richiesta di maggiore trasparenza e accountability sociale di governi e istituzioni (incluse quelle scientifiche), è chiaro che qualsiasi trasformazione riguardi la cittadinanza, per essere davvero democratica, dovrà prima o poi fare i conti con il convitato di pietra dei digital divide – geograficamente e socialmente trasversali. Nel frattempo il libro di Lafuente, Alonso e Rodríguez costituisce uno stimolo a creare alternative e non arrendersi all’entropia informativa: risorse, progetti e comunità come il Silent Spring Institute, AFM Telethon, Brain Talk Communities, BioCurious o Electrosensibilidad.es giustificano stavolta l’entusiasmo e soprattutto la speranza.