Prima il mobile

La prima notizia, non freschissima a dire il vero, è che i monitor dei computer che navigano sulla Rete diventano sempre più grandi: quasi un anno fa, oramai, StatCounter ha annunciato che la risoluzione di schermo impostata a 1366×768 pixel è diventata la più popolare tra i navigatori, superando quella di 1024×768 che dal 2004 fino ad aprile dello scorso anno è stata la misura di riferimento per ogni progettazione web.

La seconda notizia è che gli schermi dei computer che navigano sulla Rete diventano sempre più piccoli: secondo i report di Net Market Share, la percentuale di navigazioni sul Web effettuate da un dispositivo mobile (smartphone o tablet) è passata dal 3,92% del marzo 2011 all’13,16% del febbraio 2013, mentre le navigazioni desktop sono scese nello stesso periodo dal 95,8% all’86,16%.



La contraddizione apparente posta dalle due notizie si risolve con la nozione oramai allargata di personal computer che, dall’introduzione dell’iPhone in poi, si è estesa dalle scrivanie dei desktop e dagli zaini dei laptop fino alle tasche degli smartphone, passando per i confini incerti dei tablet.

Questo progressivo device switch mette la progettazione per il Web di fronte a una serie di problemi che riportano la lancetta del tempo indietro di una quindicina di anni, quando le scelte di design e sviluppo erano condizionate dalla nascente tecnologia dei browser, spesso e volentieri distanti, se non incompatibili, tra loro. Attualmente, a dispetto di una crescente standardizzazione dei client di navigazione (conseguenza di: a) una ritrovata standardizzazione dell’HTML e più in generale dei linguaggi del Web; b) un’affermazione di un motore di rendering per i browser in odore di monopolio), la molteplicità dei supporti hardware di navigazione ed esplorazione dei contenuti residenti sulla Rete richiede a un sito di essere visualizzabile, usabile e leggibile, tanto su uno schermo da 2880×1800 pixel quanto su un display da 320×480.

Una soluzione a questo nuovo tipo di problema consiste nell’abbandonare il sito e rilasciare app dedicate, completamente alternative al web: i contenuti moltiplicano così la propria identità e finiscono per perderla tra dispositivi, interfacce e soluzioni ibride e avventurose che nel migliore dei casi producono compromessi al ribasso che danneggiano l’esperienza dell’utente. Tom Morris elenca una serie di considerazioni inappuntabili sull’opportunità di intraprendere la realizzazione di un app sostitutiva del sito, non ultima quella che riguarda la prigionia dei contenuti in un giardino chiuso.

L’altra soluzione poggia sulle basi solide di una raccomandazione del W3C, le media queries, e l’ha indicata Ethan Marcotte: web design reattivo (in inglese: responsive). Rispondendo, letteralmente, alle impostazioni del supporto di navigazione, il web design reattivo adatta dinamicamente l’impaginazione dei contenuti di un sito non solo alla risoluzione del monitor del visitatore, ma eventualmente anche a quella effettiva della finestra del browser, che non sempre e non necessariamente corrisponde al cento per cento dello spazio disponibile sullo schermo.

Senza chiuderli in tecnologie proprietarie con la scusa dell’adattamento al mezzo, il responsive web design mantiene i contenuti in una piattaforma nativamente liquida e aperta (anche e soprattutto progettualmente) come il Web, e permette di capovolgere la concezione stessa della progettazione di un sito: il punto di partenza del design non è più il personal computer, ma il telefonino. Mobile first ha definito questo approccio Luke Wroblewski: un approccio che peraltro, dati i limiti stringenti dello spazio, costringe la progettazione a mettere in risalto i contenuti e la cura dedicata alla loro usabilità e leggibilità. Tutti i i framework più avanzati per il web design reattivo, da 320 and Up a Foundation, seguono oramai questa filosofia: al futuro dei siti web si guarda da una finestra piccola.