Ogni tanto sento (ancora) dire da qualche studente/essa che le digital humanities le/gli “hanno aperto un mondo”. La cosa paradossalmente non è rara nemmeno fra i cosiddetti nativi digitali (ammesso che esistano). Lo testimonia questo Manifesto scritto da un gruppo di studenti undergraduate americani come attività di un corso della Bloomsburg University in Pennsylvania. Fra le altre cose scrivono gli studenti:
Today, we need collaboration, not lectures; we need to learn concepts, not singular facts; we need networking and socialization, not isolation; we need interactive learning, not to sit back and listen. We need new outcome objectives, not standardized tests…
The literary scholar will tell you what Howl* means; the historian will give you context on the sociopolitical climate of the time; the chemist will test for drug residue on the original manuscripts; the computer scientist will create a Java-enhanced website; all of them will transcribe those manuscripts in TEI-XML; and none of this will be done alone.
Mi sembra un contributo molto lucido che andrebbe diffuso non solo fra i nostri studenti come incoraggiamento, ma direi soprattutto fra i docenti (come psicotropo?). Interessante il richiamo alla trasversalità della ricerca umanistica, data in un certo senso come acquisita. Ciò che un tempo chi si iscriveva a Lettere pensava essere il frutto del genio solitario, oggi può essere realizzato solo da team interdisciplinari. Un doppio colpo per le scienze umanistiche che vedono crollare sia il primato della sacralità individuale dell’atto creativo sia l’immagine di disciplina “incontaminata”, lontana dalle tensioni sociali, dai poteri e dalle tecniche.
* Si tratta, presumibilmente, della poesia di Allen Ginsberg.