“Nel 1955, il fisico Hugh Everett avanzò una fantasiosa spiegazione del mondo quantico (che divenne in seguito la base di Timeline, uno dei più venduti romanzi di Michael Crichton). L’ipotesi degli universi paralleli di Everett si riferisce a una sconcertante scoperta in fisica quantistica: quella per cui fintanto che una particella non viene osservata o misurata, o comunque non si interagisce con essa in alcun modo, essa si trova in uno stato che costituisce la sovrapposizione di tutti gli stati. (…) Il problema è che non c’è modo di prevedere quali dei molti possibili ‘stati virtuali’ occuperà la particella.” (Ervin Laszlo, La scienza e il campo akashico, p. 16)
Leggendo questo passo non ho potuto fare a meno di collegare i multiversi di Everett alla pluralità degli stati e delle variazioni in cui i testi – compresi i “classici” – circolavano nell’età antica e medievale. E il povero editore- osservatore se li ritrovava in mano un po’ così, sfuggenti, personalizzati e instabili, ma non per questo meno “reali” (con tutte le conseguenze del caso). Un prezioso volume curato da Loriano Zurli e Paolo Mastandrea raccoglie gli atti di un convegno PRIN dedicato all’incontro fra tecnologie informatiche e filologia latina e costituisce, allo stato attuale, il contributo italiano più importante nel campo della filologia classica digitale. La metafora di apertura trova conforto nel contributo di Mastandrea (“Gli archivi elettronici di Musisque deoque” pp. 41-72) dove, a proposito della tradizione manoscritta del poeta latino Persio, leggiamo:
“(…) questo esempio propone un inconciliabile dilemma, obbliga a prendere atto che l’opera di un (sia pur celeberrimo) poeta antico non godeva di statuto speciale o privilegio alcuno di ‘intangibilità’, quale noi conosciamo garantito dalle moderne edizioni a stampa; per quanto sacralizzato – anzi quanto più sacralizzato (…) – il testo era soggetto a modifiche, e per motivi assai differenti, quando la circolazione manoscritta offriva senza soste occasioni plurime a tali attività. Ogni colto lettore di Persio che (…) trovasse le satire accompagnate dagli scholia o dalla Vita, era dunque libero di optare a piacimento per l’una o l’altra forma, senza patire conseguenze dalla preventiva censura (…) né dalla pretesa ortodossia di editori lachmanniani osservanti.” (pp. 62-63)
L’ “apertura” dei testi antichi, come ci viene spiegato, era spesso duplice: avveniva cioè tanto sul lato ricettivo (il lettore-annotatore) che su quello produttivo (l’autore-copista). Finché l’autore conservava interesse per un’opera continuava a rivederla, senza una pregiudiziale sconfessione (fatica inutile) delle versioni precedenti, che non smettevano di circolare e produrre “conseguenze”. Dunque la fissazione del testo non era altro che l’interruzione del discorso che l’autore intratteneva con sé stesso e una pluralità di soggetti (e oggetti: si pensi ai supporti). Ma il digitale, come mostrano i saggi contenuti in questo bel volume, non permette solo di tornare a riflettere sul concetto (e la pratica) di tradizione. Forse l’interrogativo più importante riguarda i confini che siamo stati abituati a tracciare fra autori e lettori in un’universo digitale in cui ciascuno di noi “occupa”, di volta in volta, posizioni, ruoli e funzioni in perenne “sovrapposizione”. Di tale sovrapposizione (dislocazione?), in qualche modo, dovranno dare conto la filologia e l’ecdotica del futuro.