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Gli oligopoli privati della ricerca scientifica: una questione etica e politica

Fino al 1973, nel campo delle scienze mediche e naturali, i primi cinque maggiori editori pubblicavano circa il 20% di tutti gli articoli scientifici. Nel 1996 questa percentuale era salita al 30% per giungere infine, nel 2013, al 53%. Di questo 53%, Reed-Elsevier ne possedeva il 24,1%, Springer l’11,9%, Wiley-Blackwell l’11,3%, l’American Chemical Society il 3,4% e Taylor&Francis il 2,9%. Spostandoci invece nel campo delle scienze sociali e umanistiche (SSH), l’egemonia degli oligopoli privati della ricerca scientifica è addirittura più eclatante: i cinque editori più forti in questo campo passarono dal possedere, congiuntamente considerati, meno del 10% delle pubblicazioni complessive nel 1973 fino a possederne ben oltre la metà nel 2013: di questa larga fetta Reed-Elsevier pubblicava il 16,4%, Taylor&Francis il 12,4%, Wiley-Blackwell il 12,1%, Springer il 7,1% e Sage Publications il 6,4% (fonte: Larivière et al. 2015).

E arriviamo a questi ultimi anni, dove la dimensione complessiva del mercato STM (Scientific, Technical & Medical) nel 2017 è stata di 25,7 miliardi di dollari. In particolare il valore dell’area tecnico-scientifica è stato di $13,9 mld mentre quello dell’area medica di $11,9 mld. Si prevede che fino al 2021 il primo crescerà del 4,6% all’anno mentre il secondo registrerà un tasso di crescita del 2,9% annuo. I ricavi finiti nelle tasche degli editori grazie alla pubblicazione delle sole riviste STM nel 2017 sono stati pari a 9,9 miliardi di dollari e, in virtù dell’ulteriore crescita attesa del mercato, si prevede che in futuro saranno addirittura maggiori. Una buona fetta di questi ricavi finiscono però nelle mani di pochi: in base a una indagine del 2008 condotta da McGuigan e Russell, nel 2007 circa il 43% dei proventi del mercato STM a livello globale è finito nelle tasche dei dieci maggiori editori commerciali.

Nel frattempo i costi per le biblioteche sono esplosi: dal 1986 al 2005 le spese per l’acquisto delle pubblicazioni scientifiche da parte delle biblioteche facenti parte della nordamericana Association of Research Libraries (ARL) sono aumentate del 302% (il tasso di crescita medio del prezzo per accedere alle riviste è stato infatti del 7,6% annuo), mentre il numero dei “contenuti informativi” acquistati è parallelamente aumentato solo del 1,9% all’anno.

Nonostante ciò, anche attraverso il ricorso all’espediente del “grande affare” (big deal), ogni biblioteca membro dell’ARL ha visto il numero di riviste acquistate dal 2001 al 2011 passare da 13682 a 68375.

Un gruppo di ricerca canadese ha studiato l’evoluzione dei profitti di Elsevier tra il 1991 e il 2013 per mostrare come il processo di acquisizione delle riviste fondamentali e delle posizioni chiave nel processo di pubblicazione accademica abbia portato a un incremento significativo dei guadagni degli editori commerciali.

I profitti operativi e il margine di profitto di Elsevier
I profitti operativi e il margine di profitto di Elsevier in generale, a sinistra, e nel solo mercato STM, a destra, tra il 1991 e il 2013.

Il riquadro di destra (B), che prende in considerazione il solo mercato STM, mostra che l’incremento dei guadagni è stato più netto, arrivando a superare il 40% nel 2013. “Simili margini di profitto [durante il 2012 e il 2013 in ambito STM, n.d.t.] sono stati ottenuti da Science+Business Media di Springer (35%), dalla Scientific, Technical, Medical and Scholarly division della John Wiley & Sons (28,3%), e da Taylor&Francis (35,7%)”. Tali profitti, aggiunge lo studio canadese, sono comparabili con quelli della multinazionale farmaceutica Pfizer (42%), con l’Industrial & Commercial Bank of China (29%), ma sono ben al di sopra di quelli della Hyundai Motors (10%).

Di fronte a tale situazione qualche anno fa il giornalista inglese George Monbiot commentava: Quello che vediamo è puro capitalismo del rentier: monopolizzare una risorsa pubblica per poi chiedere quote altissime per potervi avere accesso. Un altro termine che potremmo usare è parassitismo economico”.

Il crescere dei profitti delle multinazionali dell’editoria ovviamente è andato in parallelo con l’insostenibilità economica per le istituzioni di ricerca, ma soprattutto è diventata una questione etica per tutto il mondo scientifico. Anche per questo negli ultimi anni si sono infittite le iniziative di protesta e  boicottaggio del sistema “paywall” nel suo complesso, così come si è andata consolidando l’investimento nel movimento dell’accesso aperto.

Dopo la presa di posizione di molte università del nord Europa, che hanno rifiutato di rinnovare gli abbonamento con Elsevier, si è mossa anche l’Associazione Europea delle Università (EUA) che nel novembre del 2018 ha chiesto alla Commissione Europea di far luce sull’ormai palese “mancanza di trasparenza e di concorrenza” nel mercato dell’editoria accademica. Nella richiesta della EUA si legge che le università del vecchio continente spendono tra gli 1,4 e i 97,5 milioni di euro per potersi garantire l’accesso alle più importanti riviste inserite nei pacchetti negoziati con i big deal, i cui prezzi nel vecchio continente aumentano in media il 3% l’anno. Per esempio, per le 24 università del Gruppo Russell, nel Regno Unito, in quattro anni il prezzo dei bundles è aumentato del 18%.  Stefano Fantoni, ex presidente dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario (ANVUR), afferma che:

La richiesta dell’EUA è fondatissima. […] questa concentrazione di potere nel settore dell’editoria scientifica potrebbe precludere l’accesso alla conoscenza a molti soggetti, specie a quelli che si trovano nei Paesi in via di sviluppo.

Il segretario di stato dell’istruzione dei Paesi Bassi Sander Dekker, in una lettera inviata alla Camera dei rappresentanti olandese nel 2013 (OPuS, 2014) ha espresso la volontà che tutti gli studiosi olandesi rendano i loro lavori disponibili in open access entro il 2024. È la prima volta che un governo prende una posizione netta nei confronti dei potentati dell’editoria globale. “Il sistema è profondamente insostenibile a livello operativo, etico ed economico. L’open access è un passo in avanti nella giusta direzione ed è necessario per poter dibattere pubblicamente della questione”, afferma il professor Jan Blommaert dell’Università di Tilburg. Il boicottaggio di Elsevier portato avanti dal governo olandese, prosegue Wijkhuijs, consta di due fasi: nella prima, l’Associazione delle Università dei Paesi Bassi (VSNU) ha chiesto a tutti i gatekeeper delle riviste pubblicate dall’azienda olandese di rinunciare al loro impiego; nel caso in cui questa manovra non avesse dovuto funzionare, si sarebbe passati alla seconda fase, in cui si sarebbe chiesto esplicitamente ai revisori di smettere di lavorare per Elsevier. Ciò per mettere pressione a quest’ultima fintanto che si cerca di raggiungere l’obiettivo primario contenuto nel National Open Science Plan messo in campo dalla VSNU, ossia “garantire l’impegno per un accesso aperto al 100% entro il 2020”. Il fine dell’ultimo accordo tra il governo olandese e Elsevier, terminato il 31 dicembre 2018, ma prorogato per altri sei mesi, è infatti proprio quello di garantire a tutti coloro che ne abbiano bisogno di accedere ai contenuti informativi prodotti dai ricercatori dei Paesi Bassi. Diverse vittorie con altri importanti editori sono già state riportate dalla VSNU, come riporta il succitato articolo sul sito universonline.nl, come ad esempio quella relativa all’accordo stretto con Springer. Tale accordo prevede che, con un aumento minimo dei costi a carico delle università, tutti i ricercatori olandesi siano in grado di pubblicare in open access in tutte e 1500 le riviste pubblicate da Springer, azienda che già da molto tempo ha compreso le potenzialità dell’accesso aperto. Continuando su questa strada, sarà possibile la realizzazione nei Paesi Bassi di un sistema di produzione e distribuzione della conoscenza scientifica che sia davvero libera e accessibile. “È un momento cruciale per noi. Se cediamo adesso – dice Gerard Meijer, negoziatore per conto della VSNU – andremo incontro ad una sconfitta terribile”.

L’università di Konstanz, in Germania, nel 2014 ha dovuto interrompere le negoziazioni con Elsevier proprio perché, stando a quanto affermato dal rettore Ulrich Rudiger, “i prezzi praticati dall’editore sono troppo alti e l’Università di Konstanz non si piegherà più a questa politica dei prezzi aggressiva e non supporterà più niente di simile.” Julia Wandt, che si occupa di marketing per conto dell’ateneo tedesco, ha infatti affermato che i prezzi praticati dal colosso editoriale olandese sono aumentati del 30% in soli 5 anni.

È abbastanza evidente che solo dove la pubblicazione di contenuti non appare vincolata da clausole contrattuali frutto di strategie di marketing predatorie essa è in grado di condurre a una reale innovazione. Per questo il “green” open access, che permette di rendere pubblici i contenuti informativi ma non i loro diritti di utilizzo, non rappresenta che un timido e parziale tentativo di emanciparsi da certe logiche che nel concreto portano solo ad una ulteriore legittimazione dell’esistente sistema di produzione e distribuzione della conoscenza accademica. Purtroppo, come spiega in un’intervista David Evans, il direttore della National Science Teacher Association, la comunità scientifica è molto conservatrice (“la sua struttura è la stessa di 50 anni fa”) e dunque apportare anche minimi cambiamenti al sistema risulta un’impresa titanica. Se in più si aggiunge il fatto che colossi dell’editoria mondiale come Elsevier hanno a libro paga lobbisti che lavorano giorno e notte e che tengono regolarmente meeting con i rappresentanti dei governi è facile rendersi conto di come il rinnovamento della struttura della comunicazione scientifica, nonostante le possibilità del digitale, venga ostacolato dagli oligopoli privati della ricerca scientifica per motivi di ordine economico, politico ed epistemologico.

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