“E un giorno ci sarà un apparecchio più completo. Quel che viene pensato o sentito nella vita – o nei momenti della ripresa – sarà come un alfabeto, mediante il quale l’immagine continuerà a capire tutto (come noi, che con le lettere dell’alfabeto possiamo capire e comporre tutte le parole). La vita diventerà, così, un magazzino della morte. Ma nemmeno allora l’immagine sarà viva; oggetti essenzialmente nuovi non esisteranno per lei. Conoscerà tutto ciò che ha sentito o pensato, o le combinazioni ulteriori di ciò che ha sentito o pensato.” (Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, p. 118)
Per chi non lo ricordasse, il testo di Bioy Casares è il racconto allucinato di un uomo che, intrappolato su un’isola, vi scopre una prodigiosa macchina che riproduce e soprattutto assicura “la conservazione illimitata delle anime in attività” (p. 114). Ma la macchina è potenzialmente molto di più di una “realtà virtuale” perfezionata, giacché aspira a mimare e sostituire l’immortalità. La sconvolgente invenzione di Morel è forse anche quella di Roberto Maragliano che da anni conduce una pubblica (ma anche personale) battaglia contro la “pedagogia verbocentrica” (p. 158), portata avanti nell’insegnamento, nei progetti di ricerca e, naturalmente, nei libri. Il punto più alto (e commovente) di questa traiettoria intellettuale è, a mio parere, il suo Parlare le immagini. Punti di vista (Apogeo, 2008). Si tratta di un lavoro – lo dichiaro subito – bello e “ardimentoso” (vedi questa ottima recensione), articolato su due flussi paralleli: Ragionamenti e Attraversamenti. Nei primi ritroviamo la voce dell’autore, nel secondo un controcanto di citazioni che costituisce un affascinante e utile viaggio nella storia, nella teoria e per così dire nell’immaginario dell’immagine.
Sono dunque felice che Maragliano abbia accettato di moderare il seminario “Vedere, conoscere, riconoscere. Protocolli della visione tra scienza, arte e vita“, il secondo della nostra ricerca New Humanities. Sarà un’opportunità per ragionare anche su alcune delle questioni da lui toccate, come quella centrale del rapporto fra immagini e conoscenza, sul ruolo di “rimediazione” della tecnologia e sull’estetica del medium digitale: “ciò che più mi attira è il problema sollevato dal rapporto fra percezione sensibile, cognizione, affettività da un lato e azione dei media dall’altro, all’interno del cui rapporto c’è anche (…) l’azione esercitata dalle dimensioni del ‘bello’.” (p. 138).
Mi riprometto di tornare in modo più approfondito su Parlare le immagini, ma intanto riporto qui la sintesi delle domande (“esigenze”) affrontate nel libro che lo stesso autore ci offre nelle pagine conclusive:
” (…) mi sono mosso tenendo conto di più esigenze:
- dare, anzi recuperare la carnalità che è propria dei linguaggi figurali, accogliendo (com-prendendo) il loro operare sul corpo e con il corpo;
- additare, su tale base, quanto di coinvolgente e avvolgente, ma soprattutto di sconvolgente c’è nel nostro fare (e nel nostro fare con) le immagini;
- individuare e valorizzare la dimensioni liberatoria che è possibile associare a tale sconvolgimento, soprattutto se si tiene conto di una tradizione epistemologica che, come la nostra, fa del distacco, dell’indipendenza, del non coinvolgimento un’irrinunciabile premessa per il sapere “critico”;
- giustificare pratiche d’uso e di produzione di figure caratterizzate da sensibilità e intelligenze di tipo immersivo e partecipante, cogliendo lì dentro quanto è conducibile a istanze di tipo riflessivo.” (pp. 153-154)