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Testo-Politica-Computer: il trittico rivoluzionario di Raul Mordenti

Per Bordeaux Edizioni abbiamo curato Letteratura e altre rivoluzioni, una raccolta di scritti in onore del percorso intellettuale e scientifico di Raul Mordenti. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo le nostre conclusioni al volume[1].

Raul Mordenti

Il progetto di questo volume nasce circa due anni fa, ma il suo sviluppo ha incontrato ostacoli di varia natura che ci hanno infine portato a “scontrarci” con le fasi finali del picco pandemico del COVID-19. Sarebbe difficile escludere dall’orizzonte di questa riflessione iniziale un evento che ha cambiato (e sta cambiando) per sempre i contorni della politica, dell’economia, dei media, delle istituzioni formative (scuola e università), della ricerca e ovviamente del nostro rapporto con la natura. Ma nel caso di un libro dedicato a Raul Mordenti, queste trasformazioni assumono un significato particolare. Raul ha infatti attraversato, in coscienza e azione, tutte e tre le “crisi”: quella politica, quella scientifico-accademica e quella che per brevità possiamo definire “digitale”. Il tempo che stiamo vivendo conferma e rilancia l’attualità e la vitalità della sua riflessione intellettuale e scientifica, il cui cuore (che si riflette anche nel titolo della raccolta) crediamo sia la teoria e la pratica della rivoluzione[2]. Come ricorda Alberto Asor Rosa nella prefazione, Mordenti riprende e fa sua la lezione del rivoluzionario Gramsci nel quale politica e cultura si nutrono costantemente a vicenda[3]. Questo libro (e questa postfazione) non potevano non riflettere tale legame e al tempo stesso intessere un dialogo con il lavoro di Mordenti, cercando di entrare, con tutti i limiti del caso, in un dibattito in corso su alcuni dei fondamenti culturali, politici ed epistemologici di questo tempo.

Abbiamo organizzato il complesso percorso mordentiano in tre parti: Letteratura, critica, filologia, dove troviamo gli interventi dedicati al Mordenti ricercatore accademico, con un’esplicita vocazione interdisciplinare (che in lui si fa vera e propria metodologia); Politica, un’emozionante sezione di ricordi e riflessioni che ripercorre l’impegno politico nel decennio ‘68-’77 (nonché l’emergere della passione didattico-pedagogica, eredità dell’amato Gramsci[4]); e infine Informatica umanistica, dove si concentrano gli interventi sul contributo alla fondazione, istituzionale quanto epistemologica, di una disciplina che è oggi il cuore della rivoluzione umanistica. Avendo pensato e scritto queste conclusioni come una “staffetta” era inevitabile concentrarci soprattutto su quest’ultimo punto. Ci è parso che un dialogo a valle delle molte autorevoli voci fosse lo strumento più adeguato per tentare di tracciare una mappa delle connessioni fra le diverse anime e dimensioni del lavoro di Raul – il quale ci perdonerà se nel farlo abbiamo scelto un terreno per noi familiare. D’altra parte, le conseguenze della pandemia mostrano ancora più chiaramente le interconnessioni fra i tre assi citati, ovvero filologia-critica del testo, politica e informatica, ai quali va aggiunto il tema della formazione. Proviamo a elencarli brevemente a modo di possibile futura scaletta per un Mordenti Reloaded:

  1. L’attenzione o ossessione odierna per le fake news e la post-verità mostra che mai come oggi è necessario conoscere e imparare a usare le fonti, esercizio filologico per eccellenza. Che cosa fa un filologo se non studiare, individuare e correggere le manipolazioni dei documenti e delle forme di comunicazione attraverso il tempo, gli “accidenti del mezzo” e le ideologie? La “scuola romana” dell’informatica umanistica da sempre individua nella filologia e nella critica del testo gli strumenti e le competenze da applicare nel presente, estendendo il proprio dominio epistemologico ed ermeneutico e rifiutando il ruolo di mere “archeologie del testo”. Da questo punto di vista il lavoro di Raul, sia quello teorico sia quello pratico-metodologico e didattico, rappresenta una risorsa e un esempio imprescindibili. A questo proposito, non possiamo non ricordare l’esperienza della Scuola di specializzazione in analisi e gestione della comunicazione multimediale dell’Università di Roma Tor Vergata, fondata e diretta da Mordenti nel 1997, come uno dei primi tentativi di affrontare le questioni umanistiche dettate dalla rivoluzione di internet, in una prospettiva formativa interdisciplinare (prima che la “interdisciplinarità” diventasse una parola di moda) e orientata sempre e comunque alla critica dei processi semiotici dei media, vecchi e nuovi.
  2. Lo scandalo Cambridge Analytica e la nota affermazione di Steve Bannon, secondo cui «se vuoi cambiare la politica, devi prima cambiare la cultura»[5] ci ricordano la necessità di sottrarre Gramsci alla destra – sebbene si tratti di un Gramsci rovesciato e violentato da movimenti identitari, come quello che ha portato Trump alla Casa Bianca[6]. Il contributo di Mordenti agli studi gramsciani, in particolare la riflessione sulla contrapposizione Croce-Gramsci sul ruolo delle masse, ci devono spingere a ripensare completamente, nell’epoca dei social, quello «spirito popolare creativo» che Gramsci aveva scoperto e valorizzato[7] e che oggi, come spiega Sordi più avanti, è il luogo da cui gli algoritmi di GAFAM[8] estraggono valore.
  3. La datificazione delle nostre esistenze si configura sempre di più come “atto politico”, anzi, geopolitico, come dimostrano le discussioni ormai quotidiane sulla sovranità digitale, la sorveglianza di massa e le conseguenti guerre fra Stati Uniti e Cina, con l’Europa presa nel mezzo, per il controllo delle infrastrutture della rete (dai cavi sottomarini al 5G[9]). Tale nuovo assetto, tanto più in epoca di COVID, configura non solo l’esigenza di rifondare un’azione politica globale, ma ripensare la nozione di “identità” e soggetto sociale (legale, ecc.), ovvero il modo in cui le tracce digitali inglobano, riverberano e talvolta amputano il sé materiale. Un “corpus” di dati che le egemoniche industrie di senso[10] fabbricano e manipolano granularmente. Nasce dunque una nuova antropologia. Riprendendo la riflessione di Mordenti sull’idea gramsciana di lavoro intellettuale, «ci troviamo qui di fronte a una rottura radicale con tutta la tradizione culturale occidentale, e più precisamente ai possibili fondamenti di una nuova antropologia, sui cui converrà tornare.[11]»
  4. Infine, la questione che forse sta più a cuore agli autori di questo libro: la ricerca e la formazione. L’esplosione dell’insegnamento online e l’alba della platform university[12] rischiano di portare a conclusione la marcia ventennale del capitalismo cognitivo iniziata alla fine degli anni ’80 con la riforma Ruberti, poi Berlinguer, poi Zecchino e finalmente Moratti e Gelmini. Un’ideale saldatura del progetto delle classi dominanti, unite soltanto dall’irrefrenabile passione per l’avvelenamento dei pozzi (Mordenti la chiama «borghesia-Kutúzov che brucia i luoghi da cui si ritira»[13]). E la cosiddetta DAD (Didattica A Distanza), oltre a fornire ulteriori elementi per i tagli al personale, diventa il modo per appaltare a GAFAM l’istruzione[14] e soprattutto creare i presupposti, come mostra il caso Respondus[15], di un’inedita “istruzione della sorveglianza”. Questa “modernizzazione”, che una volta era “solo” smantellamento e privatizzazione, oggi rischia di diventare militarizzazione dei luoghi del sapere e dell’insegnamento, decretando la fine degli spazi condivisi, ovvero delle relazioni (studente-studente, docente-studente, ecc.), già ridotte ai minimi storici nell’era post-Gelmini. Si porterebbe così a compimento la negazione di quel «corpo sociale in movimento», di quei sovversivi scambi in presenza che sono il fondamento di ogni rivoluzione culturale, sociale, politica:

Questo concetto di un corpo collettivo del movimento “in fusione”, questo rapporto speciale che nel movimento si stabilisce fra compagni è della massima importanza. […] Ma che cosa significa essere “in fusione” o (che è dire la stessa cosa) in movimento? Il punto davvero fondamentale è il rapporto fra gli umani che si viene a stabilire: le persone nel movimento (direi meglio: le persone in forma di movimento) non si rapportano più come accade nell’anormale normalità del capitalismo, cioè attraverso lo specchio rovesciato delle merci, che è lo Stato; […] Nel movimento infatti gli uomini e le donne già prefigurano e vivono un rapporto sociale diretto e non alienato giacché ciò che li “tiene insieme” è appunto un reciproco riconoscimento immediato, questo – a sua volta – deriva dalla volontà comune di cambiare il mondo insieme, dalla lotta collettiva.[16]

Dalla filologia digitale all’edizione-uomo

La memoria del ’68 non è comparabile (nulla lo è in tali casi) con quella del ’90, l’anno del movimento della Pantera. Fu in quegli anni che conobbi Raul, da lontano, ma il mio incontro con lui non avvenne durante l’occupazione. Era infatti il 1992 e seguivo le lezioni e le esercitazioni di filologia di Pasquale Stoppelli, il quale all’epoca si iniziava a dedicare all’impresa della LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli su CD-ROM). Per qualche ragione (fu forse Giuseppe Gigliozzi a passarmelo?) lessi, rimanendone folgorato, un articolo di Mordenti: Informatica e filologia, primo nucleo di quello splendido libro che sarà Informatica e critica dei testi[17] .  Nei confronti di quel primo testo contrassi un debito di riconoscenza intellettuale e professionale che ancora non è estinto – e forse proiettato com’è nel mito dei vent’anni non sarà mai estinguibile.

In questo spazio vorrei soffermarmi su L’altra critica[18] e in particolare sul quarto capitolo (Sul concetto di ‘testo’ da Gutenberg all’informatica), un tema centrale della ricerca mordentiana. Va detto che questi temi verranno ripresi e approfonditi da Mordenti in un saggio ben più corposo del 2011, le cui più attuali implicazioni vengono discusse più avanti da Paolo Sordi.

I primi cinque paragrafi di L’altra critica servono a inquadrare in un contesto storico-critico (con incursioni molto puntuali nell’antropologia e nella filosofia) le linee evolutive della testualità. Una delle argomentazioni che prepara la discussione sul testo digitale (che Mordenti qui preferisce chiamare «testo informatico» o «informatizzato») è che la mobilità sia una caratteristica del testo in generale e non una virtù di quello digitalizzato. Su questo punto l’autore porta prove convincenti, proponendo tra l’altro un’originale lettura di alcuni passi del Fedro di Platone:

[T]utte le modalità di produzione, conservazione, fruizione della testualità antica (…) non sono affatto contrapposte ma, al contrario, sono come sovrapposte e confuse, intrecciate a descrivere una situazione testuale che ruota comunque intorno alla parola vivente e che proprio da questa assume valore e senso.[19]

Nel paragrafo 7 (A proposito del testo informatizzato) si entra nel vivo della discussione che ci interessa.  Alcune di queste pagine sono ormai un “classico” della riflessione sul testo digitale. Mordenti è il creatore di alcuni mantra dell’informatica umanistica; in particolare consiglio di incorniciare e regalare agli ‘amici’ informatici il seguente: «L’informatica che ci interessa è più un’episteme che una tecnologia»[20].  Lo studioso non nasconde ovviamente che i nuovi supporti e veicoli della scrittura «determinino anche una diversa idea di testo», ma come vedremo fra poco non accetta ciò che egli chiama la «deriva ermetica»[21] che discenderebbe da un certo modo di interpretare la testualità digitale. Mordenti è di mestiere, oltre che critico, anche filologo e su questo tema, la filologia, ha scritto a mio parere le sue pagine più belle e drammatiche:

La domanda che occorre rivolgere alla filologia, giunti a questo punto del nostro ragionamento, è allora radicale (e si tratta di una domanda formulabile, cioè pensabile, solo a partire dall’informatica e dalla sua specifica modalità tecnologica di edizione non più gutemberghiana); tale domanda potrebbe essere così formulata: quanto c’è di intrinsecamente gutemberghiano, nella moderna teoria filologica? Quanto dipendono dalla stampa, ad es., il concetto di “archetipo” o quello di “originale” (che, non a caso, Avalle definisce “uno dei più sfuggenti e ambigui della critica del testo”?). E, soprattutto, quanto dipende dalla stampa la stessa idea di edizione intesa come costituzione di un testo e di uno solo, a cui risalire attraverso (ma si potrebbe dire anche: nonostante) la pluralità dei testi storicamente dati e viventi, degradando questi ultimi a meri testimoni subalterni, a pallida eco materiale (ma mendace e fuorviante) del Testo come idea pura?[22]

A prenderlo sul serio, questo passaggio rappresenta uno dei più violenti attacchi mai sferrati alla scienza della ricostruzione del testo. È un passaggio già abbozzato nel saggio del ’92[23] e ricordo che fu proprio riflettendo su questa intuizione di Mordenti che decisi di scrivere una tesi su come stesse cambiando la scrittura con l’avvento del computer. Ma sullo sfondo rimaneva quella filologia che, come scrive en passant Segre nelle ultime pagine del suo Avviamento all’analisi del testo letterario[24], insieme ai documenti costruisce «le diverse concezioni della verità, e perciò dell’autorità da conferire ai testi stessi»[25]. Ma come Segre, di fronte a questa possibilità di smascheramento definitivo dell’interfaccia della cultura, fondamenta e scudo delle grandi narrazioni, Mordenti si arresta. Questo “processo al documento” (direbbe Foucault) non s’ha da fare. Paura? Sgomento? E il paragrafo finale del capitolo, (“Il senso del testo”), allora è tutta una difesa, strenua ma forse tardiva del senso del testo contro la deriva ermetica e la decostruzione.

Il primo grado di questo contro-processo è l’individuazione di un colpevole, ovvero una «certa linea interpretativa, non per caso di provenienza specialmente americana, che lega direttamente il testo informatizzato (…) con la teoria decostruzionista»[26]. La tendenza a legare critica e politica è qui confermata: quel «non per caso» salda i teorici della ipertestualità postmoderna (rappresentati dall’emblematico George Landow) all’Impero americano della conoscenza[27]. Il secondo grado è ben più complesso e qui posso solo tentare di riassumerlo, ovvero il tentativo di operare un rovesciamento e una rivalutazione, con raffinati strumenti storico-etimologici, del concetto di tradizione, nel senso di attività di trasmissione «creativa e ricreativa»[28] del testo. Il punto è dimostrare che la mobilità del testo informatizzato non è complemento necessario né fonte della «semiosi ermetica».

Dico sinceramente che il primo grado mi sembra un processo imbastito con prove insufficienti: non si può liquidare (ma a dire il vero Mordenti si sforza di non farlo) il gigante decostruzionista celandolo dietro un nano (con tutto il rispetto per George Landow il quale ha svolto una funzione importantissima e meritoria nei primi anni della diffusione del web mostrandone agli umanisti le potenzialità). Inoltre, al di là dei legami – ormai flebili – fra deriva ermetica e teoria del testo digitale, vi sono molti altri filoni di ricerca che non vengono presi in considerazione da Mordenti. Mi riferisco alla ricca letteratura che studia le forme native della comunicazione digitale, teoricamente agguerrita e con una sua tradizione indipendente[29] dalle Digital Humanities.

Il secondo grado, se possibile, mi sembra ancora meno convincente del primo. Condivido con Mordenti che il testo viva nel «movimento storico, nella kabbalah, e, se necessario, perfino nel ‘tradimento’»[30]. Tuttavia il recupero della tradizione, per quanto egli si sforzi di spiegarne e circostanziarne l’utilizzo, finisce, inevitabilmente, per offrire una sponda alle pratiche di recinzione della sacralità del testo, cadendo dalla padella decostruzionista nella brace teologica. Il Testo Sacro infatti (e mi riferisco tanto al vecchio che al nuovo testamento[31]) non è affatto immutabile se non proprio in quella “tradizione” stabilita in quanto canone teologico (ovvero ideologico, politico, ecc.). E d’altronde era inevitabile, giacché con buona pace delle tesi di Canfora[32], Filologia e Teologia più che nemiche sono sorelle: entrambe tese alla ricerca della verità. Del senso del testo. La domanda è: il senso di chi? Altrove Raul Mordenti e Claude Cazalé per difendere il Testo dagli assalti decostruzionisti avevano fatto riferimento al concetto di comunità di interpreti. In un tempo che vede instaurarsi la dittatura del testo algoritmico, sembrerebbe questo un miglior baluardo contro la perdita di senso. Ma, come vedremo, oggi sia il concetto sia la pratica di comunità in rete appaiono in profonda crisi.

È possibile e ha oggi ancora senso cercare una soluzione, almeno provvisoria, alla tensione tradizione vs. decostruzione? Credo che il senso del testo digitale sia racchiuso in quelle che Mordenti stesso chiama le «potenzialità pragmatiche»[33] del testo informatico, ovvero quelle relazioni a geometria variabile che si stabiliscono fra lettore e programma e/o programmatore/scrittore. Dove il software, sintesi già in partenza multi-autoriale, interagisce con i fruitori, modificandosi e adattandosi al contesto.  Questo paradigma d’altra parte non è nuovo nella storia della comunicazione: Wittgenstein l’aveva prospettato nell’idea dei giochi linguistici nei quali non c’è distinzione rigida fra soggetto e oggetto, e dove la stessa costituzione dell’oggetto si realizza attraverso una dimensione pragmatico-comunicativa all’interno della comunità dei parlanti.

Tuttavia anche questa prospettiva non è priva di controindicazioni. Innanzitutto perché la rete non è un sistema semiotico autonomo.  Accettare questo punto vista negoziale sul significato vorrebbe dire poi lasciare che la scrittura (non più «invariante»[34], ma mutante) della rete scinda gli ultimi legami col mondo della ricostruzione del testo. Tutte le problematiche teoriche e tecnologiche che nascono dalla conservazione delle fonti, che pure riveste un ruolo fondamentale nella trasmissione dei saperi e delle memorie, cederebbero dunque il passo di fronte a nuovi modi di intendere la memoria e le identità (e dunque a nuove teorie e metodologie di indagine). Ricordando il Foucault di Che cosa è un autore?[35], oggi dovremmo domandarci: che cosa è l’individuo? La questione non è più definire “l’opera” di un autore e le sue fonti, ma semmai mapparne la pressoché sconfinata estensione. Fra Twitter e Facebook, fra Instagram e Google, fra WhatsApp e Airbnb, la rappresentazione-codifica scritta dell’individuo sconfina ben oltre il sé documentabile. E Zuckerberg e compagni diventano gli editori dell’opera completa della nostra vita. Ma qui mi fermo, perché siamo arrivati alle soglie di una successiva e forse inattesa (certamente non auspicata) trasformazione del “senso del testo” e forse all’alba di un suo oscuro Impero: è il momento di passare la staffetta al mio compagno di viaggio.

Il senso del testo algoritmico

Tutto il sapere umano è raccolto, ipercollegato, dice Don DeLillo in Underworld: «questo sito porta a un altro, questo fatto rimanda a un altro, un tasto, una cliccata di mouse, una parola di identificazione, — mondo senza fine, amen»[36]. La fluidità di un testo senza spazio consolidato e tempo scandito è stata la caratteristica che ha contraddistinto il “testo informatico” del world wide web: un ipertesto, innanzitutto, scagionato dall’obbligo della linearità e sequenzialità; un testo ipermediale, cui partecipano, in sincretismo, media e linguaggi diversi; un testo interattivo, di fronte al quale il lettore partecipa al processo di creazione di senso avviato dall’autore seguendo un itinerario che si forma all’interno e all’esterno del testo; un testo, infine, pubblicato in rete, messo in condivisione e in collegamento con altri testi.

Secondo Mordenti, è quest’ultima la vera, dirompente novità del testo informatico. La pubblicazione online «frantuma e annichilisce» il triangolo secolare e gutemberghiano Autore-Titolo-Editore che identificava e attribuiva il testo a stampa[37]. Se prendiamo per vera questa affermazione, e qui intendiamo farlo, è evidente che dobbiamo chiederci qual è la ricostruzione in atto, in quale modo i frammenti in cui il testo, una volta divenuto «informatico», si è scomposto, possano essere ricondotti a una unità che scongiuri la «deriva ermetica», ovvero l’irriducibilità di un testo non solo a essere contenuto in una unica dimensione di spazio e di tempo, ma anche la sua irriducibilità naturale a significare, soggetto come è, nel reame del digitale, a un processo senza soluzione di continuità di modifiche, rielaborazioni che lo espongono ad altrettante interpretazioni. Per tentare di capire cosa nasce (cosa sta nascendo, qui e ora) sopra le macerie dell’èra tipografica, volgeremo il concetto caro a Mordenti di parádosis, ovvero il concetto di una tradizione dinamica, una sorta di consegna in movimento, nell’ottica di quella che proprio in questo volume Giovanni Ragone definisce «mediamorfosi», l’ambiente comunicativo «in cui ci formiamo, viviamo e apprendiamo»[38].

Questo ambiente, per quanto riguarda la rete e le logiche di pubblicazione dalla rete generate, non è più il world wide web. L’internet del testo informatico è oggi l’internet di Google e Facebook, e Amazon, Apple, Microsoft, Netflix, Airbnb, ecc. Una logica divergente, in base alla quale gli sviluppi delle tecnologie open source e di pubblico dominio[39] su cui si è storicamente fondato e sostenuto il web possono essere sfruttati per generare invenzioni commerciali, ha dato modo alle big tech di costruire una rete alternativa, connessa agli smartphone prima che al computer, e chiusa, protetta da patenti e brevetti che occultano nel backend i linguaggi e i software aperti[40] e divorano nelle app gli ipertesti. Nella transizione dell’esplorazione della rete dallo schermo di un computer desktop o laptop allo schermo di un iPhone, e nel passaggio dalla metafora di uno spazio geografico (il sito) alla metafora di un’attività performativa (l’app) sta giusto la scomparsa del web. Incapace di portare i soldi («It would never bring in the bucks»), il web lascia al capitalismo l’inevitabile compimento del suo ciclo, e con l’iPhone di Apple si afferma a partire dal 2007 un modello economico di sfruttamento del potenziale di internet (la «vera rivoluzione») con dispositivi e software in grado di «funzionare, affidabili e senza interruzioni». Addio alle pagine da girare senza meta, al caos ingovernabile dei link e degli ipertesti, addio al browser, benvenute alle app, «progettate per un singolo scopo», ottimizzate per la specializzazione delle azioni e degli obiettivi: l’apertura è una cosa meravigliosa in una economia senza moneta di produzione tra pari, ma è il momento dei «profitti e dei giardini chiusi che li producono».[41]

Il web si è trasformato in una piattaforma, niente altro che una infrastruttura sulla quale costruire applicazioni.[42] La piattaformizzazione del web diventa, in questo quadro in trasformazione, la piattaformizzazione di una cultura che non è soltanto quella ricevuta (consegnata) attraverso la rete ma anche e soprattutto la cultura che si dà ex novo sulla rete, sempre più dipendente da software e algoritmi che scompongono le tracce testuali in unità minime, dati da riusare e aggregare in sistemi complessi di analisi e previsione globali su comportamenti e consumi individuali. José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal parlano a questo proposito della società contemporanea come di una «società piattaforma», ovvero un’architettura sociale basata su una programmazione tecnologica delle interazioni tra gli utenti, un ecosistema digitale che modella le pratiche quotidiane puntando «alla raccolta sistematica, al trattamento algoritmico, alla circolazione e alla monetizzazione dei dati degli utenti stessi» (intendendosi come utenti non solo singoli individui ma anche aziende private e istituzioni pubbliche).[43] Su questa strada, e tenendo a mente la rilevanza culturale di un sistema digitale dei media in cui si sviluppa la centralità sempre più prepotente delle piattaforme,[44] possiamo dire che le piattaforme si occupano non tanto di riflettere una cultura, una tradizione, quanto di produrre la cultura in cui viviamo, di fissare una nuova tradizione e di fondare una nuova pedagogia globalizzata[45].

Il testo di questa nuova tradizione è un testo «contingente e instabile»[46] ma in un senso nuovo, quello della personalizzazione in tempo reale: è un servizio che si adatta al singolo lettore-utente-scrittore, al momento esatto in cui interagisce con il testo, al luogo preciso da cui lo legge o lo produce, alla storia delle sue relazioni precedenti con il testo. Nella galassia algoritmica delle piattaforme, i social media come Facebook, Instagram, Twitter hanno avocato a sé il potere di controllo sui testi dissimulando l’operazione nel trasferimento dell’atto di scrittura ai lettori-utenti, promossi autori volontari e involontari di un’opera (il proprio profilo personale) che post dopo post, messaggio dopo messaggio, comprende: successi professionali, impegni di lavoro, resoconti di imprese giovanili, ricordi di infanzia, pensieri liberi, appunti di viaggio, foto delle vacanze, escursioni con i figli, dialoghi con i colleghi, conversazioni con gli amici, commenti alle vicende della politica e della cronaca, visioni di film, serie TV, ascolti di canzoni, letture di libri, nonché tutte le interazioni (i like, i commenti, le condivisioni, la semplice visualizzazione per un tempo maggiore di un secondo di un post o di una pagina) con contenuti dello stesso tipo pubblicati sul network. È un potere, di cui Facebook rappresenta la piattaforma più invasiva con il suo ecosistema che include WhatsApp e Instagram, «che vuole sapere e mi incentiva a raccontare di me»[47].

Nell’incentivazione al racconto, nell’invasione del campo della letteratura, sta in tutta la sua evidenza la valenza letteraria della “questione informatica”, oggi. A partire dagli anni Cinquanta del Ventesimo secolo, il Laboratorio di scrittura dell’Università dell’Iowa negli Stati Uniti è stato il punto di attrazione focale della letteratura americana della seconda metà del Novecento, attirando docenti di fama mondiale e formando generazioni di scrittori nel solco della tradizione di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald tra gli altri. La trasformazione di un piccolo corso locale in un centro culturale di portata internazionale si deve a Paul Engle, lo storico direttore del workshop. Engle ottenne fondi per finanziare il corso dalla Rockfeller Foundation e dalla Farfield Foundation, fondazione dietro la quale si nascondeva la CIA, che in questo modo, e attraverso un’altra struttura (il Congress for Cultural Freedom) sosteneva le attività culturali americane, soprattutto in Europa. Finanziando borse di studio internazionali per il laboratorio con l’aiuto della CIA, Engle usò deliberatamente la letteratura, o meglio: un’idea di letteratura, come mezzo di “indottrinamento ideologico”, un’arma di propaganda internazionale dell’american way of life per convincere «gli anticomunisti rimasti in Gran Bretagna e in Europa che l’America non fosse solo Topolino e Coca-Cola».[48] È un’applicazione di scuola di quello che Mordenti chiama «potere di senso», la forza che imprime una direzione al corso delle cose, creando, imponendo e controllando sistemi simbolici all’interno dei quali gli uomini si rifugiano dall’insensatezza del mondo naturale, accuditi dal linguaggio, dalla letteratura quale «ipersemantizzazione del linguaggio nei testi» e dal racconto che tramuta l’esperienza in discorso.[49] Non si tratta di un processo neutrale, affidato alla sola forza purificatrice della “bellezza”[50] o alla magica autoregolamentazione del “mercato”: quando «il simbolismo su cui si erano basati gli interessi estetici e intellettuali del ventesimo secolo» ha perso senso, «schiacciato sotto il peso di due torri», quando è diventato chiaro che Internet sarebbe stato il terreno per «una forma di feudalesimo intellettuale prodotto da un’innovazione tecnologica travestita da cultura», gli investimenti, i fondi, questa volta provenienti dalle casse del Dipartimento della Difesa, sono andati a finanziare la Silicon Valley, secondo un disegno (intelligente davvero, si potrebbe dire in questo caso) che ha creato un sistema industriale ma soprattutto diffuso un modello culturale globale[51].

Il potere di Mark Zuckerberg sul senso dei testi si serve dunque, ancora e sempre, dell’arma del racconto e della letteratura, costruendo innanzitutto uno spazio inedito, un giardino dorato nel quale hardware e software, computer e sistemi operativi, smartphone e app giocano un ruolo che erroneamente viene imputato da studiosi e media frettolosi a un web oramai ridotto in realtà a mero sussidiario applicativo. Da un lato, dispositivi mobili e applicazioni forniscono un canale di connessione e trasmissione permanente tra rete e racconto, dall’altro sono l’output di principi e tecniche retoriche che nelle discipline informatiche sono catalogate sotto il termine di “usabilità” o sintetizzate da locuzioni come user friendly.[52] Se è vero che ogni interfaccia di lettura è anche un’interfaccia di scrittura, si può ben comprendere come la progettazione dei sistemi operativi dei device digitali e delle app influenzi in partenza la nostra capacità (o incapacità) di interpretare prima e modellare poi il mondo che ci circonda. Già nel 1990 Rob Swigart notava come le metafore del computer (la scrivania in primis) creassero pattern di azionabilità capaci di invertire la relazione di controllo tra uomo e macchina, macchina che finisce per controllarci, inconsapevoli di essere controllati. A maggior ragione, se le interfacce puntano, come ha notato Lori Emerson,[53] alla scomparsa dell’interfaccia stessa, con la metafora della scrivania che si è volatilizzata in una nuvola di applicazioni e dati sempre a disposizione eppure inafferrabili. L’interfaccia di Facebook e delle social app sono un trionfo di chiamate all’azione nei confronti dell’utente (CTA, Call to Action, nel gergo dell’interaction design): con appeal che infonde affidabilità e credibilità, ma imperativamente, e sfruttando tecniche che interrompono il flusso di pensiero[54], l’applicazione guida senza sosta gli utenti ad alimentarla con i propri frammenti narrativi, così che le interazioni possano generare le quantità enormi di dati di cui ha bisogno per produrre un perdurante, attendibile effetto di novità e freschezza, che innesca un ciclo senza sosta di attrazione all’uso ripetuto e compulsivo. Seamlessness, dice Emerson: tutto questo accade senza che intervengano linee di demarcazione a tracciare confini da un punto a un altro punto, da un’azione all’altra, da un contenuto a un altro contenuto, da una piattaforma a un’altra forma, da un’interfaccia a un’altra interfaccia, da un backend a un frontend, tutto è incorporato nella gabbia invitante e invisibile di trecentoventi pixel della social app. Diventando invisibile, l’interfaccia diventa anche sempre meno leggibile, e di conseguenza scrivibile, da parte dell’utente, che crede di impartire istruzioni alla macchina, quando invece è la macchina a ordinare all’utente di agire.

Ed è questo ordine, un imperativo oramai possiamo dire, piuttosto che un incentivo, a raccontare che fonda un genere, il newsfeed, in cui la dimensione privata della scrittura torna a incrociare la dimensione pubblica, come accadeva per i libri di famiglia, un’altra pietra miliare nel percorso di ricerca di Mordenti. Un genere che fa a meno degli obblighi della classica sequenza narrativa inizio-mezzo-fine, eppure irresistibile, perché la narrazione circolare di fatti, notizie, storie, esperienze, commenti che l’algoritmo compone come nuova a ogni interazione con l’app, aggregando le scritture della nostra cerchia di ‘amici’, immerge ripetutamente il lettore-utente in un mondo di storie in cui, perso il «il corpo a corpo del testo e del contesto, dell’autore e del destinatario, del soggetto e dell’oggetto», la «fame di realtà» viene appagata dalla casualità, dall’urgenza emotiva, dall’autobiografia, dall’autenticità abbinata all’artificio, dall’engagement emotivo mentre il trasporto narrativo è assicurato sia dalla identificabilità con individui che agiscono, pensano e sentono nella realtà così come facciamo noi stessi (anzi, quegli individui siamo noi), sia dalla familiarità con le vicende e i temi condivisi[55]. Una bolla rassicurante[56] entro la quale ci chiudiamo ogni volta che avvertiamo la compulsione di tornare a celebrare una cerimonia istantanea che è insieme personalizzata e di massa. Ma la dimensione pubblica del racconto è oggetto di una privatizzazione (e monetizzazione) per la quale ogni narrazione della realtà non è altro che una fonte di dati la quale, registrata, codificata e processata dagli algoritmi, produce messaggi a beneficio di una conoscenza che ruota intorno a una sola, vera, grande finalità: lo sfruttamento programmatico del lavoro gratuito degli ‘autori’, funzionale a strategie di marketing di prodotti e servizi che attraverso la personalizzazione dei messaggi impongono una forma moderna di controllo[57], una forma sistematica, monopolistica e totalizzante cui i mass media del Ventesimo secolo non avrebbero mai potuto aspirare. È questa la realtà della macchina dello storytelling,[58] per la quale non esiste il problema della scelta, della selezione di una sequenza di eventi racchiusa tra i due punti estremi di un inizio e di una fine, perché sia dato senso. Come per Michel Foucault, così per Facebook Google, Amazon, Apple, Microsoft e le piattaforme del capitalismo digitale, tutte le tracce, tutte le scritture fanno parte dell’“opera” dell’individuo che sconfina nell’eterno flusso di dati digitali che ci precede, ci circonda, ci avvolge.[59] Sarebbe però sbagliato pensare a queste scritture come a un testo «adespoto, anepigrafo, acefalo, frammentario».[60] Dietro l’esposizione incongruente e frammentaria dei contenuti si cela in realtà la nuova sacralità del testo algoritmico e il senso voluto dai suoi veri autori e padroni, di coloro che si fanno carico di firmare, raccogliere, ipercollegare, i fatti, le parole, le storie, le persone – mondo chiuso senza fine, amen.

Decolonizzare la conoscenza. Per una rivoluzione dai margini [61]

Ma è dunque ancora possibile, in presenza di un Autore totalitario, restituire l’appartenenza del testo al testo stesso? Trovare piuttosto che un senso, un altro senso? È ancora possibile, in altre parole, una rivoluzione nella società algoritmica delle piattaforme? Su che cosa si dovrà fondare? Sebbene scarsamente visibili in un occidente sempre più ripiegato su sé stesso, molti paesi del “Sud” in questi anni hanno mostrato che una decolonizzazione della cultura e dunque della tecnologia è necessaria e possibile[62]. Usiamo qui il termine “sud” nel senso proposto dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos che prende le distanze dall’etichetta di “Sud Globale” e considera il Sud una metafora e non solo uno spazio vincolato alla cultura o all’economia: «En el sentido aquí usado, el Sur es una metáfora para el sufrimiento sistemático infligido a grandes porciones de población por el colonialismo, el capitalismo y el patriarcado occidentecéntricos. Como debería estar claro, dicho sufrimiento no es responsabilidad exclusiva de Europa […]. Aprender del Sur significa aprender de las periferias, de los márgenes. [63]»

L’articolazione di una «giustizia epistemica»[64] e di una «equità cognitiva»[65] che riparta dai margini e dalle periferie del mondo ha da tempo investito il digitale, sia a livello teorico-metodologico, sia pratico (governance delle infrastrutture, sovranità dei dati, creazione di applicazioni aperte, ecc.). Possiamo qui accennare ad alcune questioni interconnesse (con la promessa magari di riprenderle insieme a Raul in vista di prossime lotte). La prima questione è pragmatica e implica azioni e soluzioni alla portata di tutti e tutte. Ci riferiamo al percorso che prende il nome di degoogling. La «degoogolizzazione»[66] mira a disfarsi letteralmente della dipendenza dei prodotti di Google ma il suo significato si può estendere a tutte le big tech del capitalismo digitale. Degoogolizzare infatti è una delle necessità ‘pedagogiche’ della de-colonizzazione epistemica. Il primo passo in questa direzione è contrastare la narrazione dell’inesistenza delle alternative: il software, libero o comunque non programmato all’estrazione commerciale dei dati e delle vite personali degli individui, è disponibile da sempre, ma la sua adozione richiede, gramscianamente, una nuova coscienza a cui segua un’adeguata alfabetizzazione, lontana dalle “abilità informatiche” o dalla “natività digitale”, e vicina invece alla consapevolezza e padronanza di un sistema di segni in cui linguaggi e supporti, programmi e dispositivi, software e hardware fissano le cornici del pensiero pensabile, per dirla con Noam Chomsky. Il secondo passo è riscoprire (e difendere) il world wide web come protocollo e spazio aperto di racconto, comunicazione e condivisione, in contrasto con le gabbie dei social media e le corrispondenti app quali modelli standardizzati di pensiero su scala globale, recinti di sorveglianza e monopoli di potere[67]. Un terzo passo è il rifiuto dell’algoritmo come regolatore delle relazioni sociali, ad esempio quelle lavorative, ribaltando il rapporto tra tecnologia e diritti. Una dimostrazione arriva dai lavoratori della cooperativa Mensakas di Barcellona, che unendo ex dipendenti di Deliveroo ha creato una propria applicazione di consegne a domicilio sfuggendo all’ingabbiamento retorico del lavoratore come imprenditore di sé stesso imposto dalle piattaforme della cosiddetta sharing economy, per restituire al lavoro dipendente contratti e tutele (ad esempio contro la sorveglianza e il sovraccarico di ore) valide anche in un regime di digitalizzazione avanzata dei processi lavorativi[68].

La seconda questione è a monte delle scelte individuali ed è certamente più complessa. Stiamo parlando della governance di Internet, un tema che ha visto il Sud protagonista del tentativo di rendere il governo della rete multipolare[69]. Esiste ovviamente una estesa letteratura che racconta questo processo (e il suo sostanziale fallimento a causa del veto statunitense), ma qui vogliamo sottolineare come a quasi venti anni di distanza dal primo forum globale della rete voluto da Kofi Annan (2003), le proposte più radicali e innovative vengano proprio da gruppi radicati nel Sud Globale. All’ultimo Internet Global Forum di Berlino, nel novembre 2019, la Just Net Coalition ha presentato il Digital Justice Manifesto che rappresenta la prosecuzione e aggiornamento di quel “Internet Bill of Rights” o Magna Charta della rete (lanciata nel 2006, fra gli altri, da Stefano Rodotà[70]) che Europa e Stati Uniti successivamente abbandonarono[71]. L’analisi della Just Net Coalition parte da una constatazione: siamo di fronte alla intelligentificazione dei processi socio-economici (e aggiungiamo culturali, epistemologici e cognitivi), ovvero il passaggio dall’uso e trasformazione diretta della forza-lavoro fisica allo sfruttamento di fonti esterne di «data-based intelligence»[72]. In conclusione, le nuove strutture di potere e le nuove relazioni umane generate da tali processi richiedono «un nuovo contratto sociale.[73]»

Fra i sedici punti di cui si compone il Digital Justice Manifesto troviamo alcuni principi fondamentali che estendono i diritti sociali e individuali delle persone alla dimensione digitale. In un tempo in cui nessuno sembra in grado di fermare la capacità di GAFAM di produrre e inglobare stili di vita, immaginari e conoscenze, tali principi e regole costituirebbero l’unico baluardo capace di difendere e rilanciare sia le pratiche democratiche sia i diritti umani – e dunque suonano, oggi, totalmente rivoluzionari. Ricordiamone alcuni: il diritto individuale e collettivo di possedere e gestire i propri dati e le elaborazioni che su di essi vengono operate dagli algoritmi; la protezione dagli abusi sui nostri dati e la necessità di specifici strumenti tecnici e legislativi per poter attuare tali protezioni e sanzionare i trasgressori; il diritto per le comunità locali e/o statuali di decidere quali dati possano uscire dai propri confini e come debbano essere gestiti; la proprietà e la gestione pubblica delle infrastrutture di rete sul modello delle cosiddette public utilities; una governance della rete basata interamente sul principio dei beni comuni; finalmente, la necessaria rottura dei monopoli privati della rete. Certamente bisogna domandarsi quali e quante di queste proposte siano realizzabili nel breve e medio termine o se invece i processi di «espropriazione dei diritti umani fondamentali[74]» siano ormai giunti a uno stadio di irreversibilità in cui soltanto una rivoluzione politica globale possa cambiare le cose. Il capitalismo della sorveglianza difficilmente tollererà limiti al proprio potere e persino l’esaustiva e spietata analisi di Shoshana Zuboff sembra in fondo considerare l’attuale «sovversione della sovranità del popolo» una perversione del capitalismo, e non la sua diretta conseguenza. D’altra parte, la ragione per la quale tutto deve essere privato è che tutto deve essere controllato. Il capitalismo della sorveglianza è autofago e militarizzato, almeno dagli anni ’50. Le rivelazioni del caso Crypto AG, l’azienda controllata da CIA e servizi tedeschi che dal dopoguerra in poi ha prodotto e venduto macchine antispionaggio “truccate” a nemici ed alleati, dimostrano che i paradisi offshore del capitalismo erano (e sono) strumentali a un preciso disegno geopolitico[75]. (L’azienda svizzera era per altro altamente remunerativa, dunque una perfetta sintesi del binomio sorveglianza-capitalismo.) Dunque sembra difficile immaginare che le grandi piattaforme accettino di essere controllate dalle persone, giacché esse sono nate e si sono state finanziate per essere usate contro le persone[76]. E quand’anche saremmo riusciti, fra dieci o vent’anni, a limitarne i danni, il capitalismo sarà già avanti: già oggi il problema dei diritti umani non riguarda più solo algoritmi e software, ma anche il wetware, ovvero il nostro cervello, come dimostra l’Iniziativa per i Neuro-Diritti portata avanti da un gruppo di scienziati e giuristi dell’Università della Columbia[77]. In conclusione, il tema della “giustizia digitale” riporta al centro della storia l’esigenza di una nuova coscienza di classe che spinga il proletaria(da)to (l’antica carne da cannone che si fa oggi “carne da dati”) verso un «atto rivoluzionario»:

I problemi ai quali abbiamo accennato, ovvero infrastrutture, oligopoli della conoscenza, sorveglianza, sovranità epistemica, ecc. affliggono, anzi si amplificano nel mondo della ricerca e dell’università. Una degli effetti del capitalismo digitale infatti quello di aver creato un nuovo campo di tensioni “pedagogiche” fra imperi, ovvero una geopolitica della conoscenza[78]. Il colonialismo digitale di GAFAM[79] per quanto devastante per le democrazie, le diversità culturali, la privacy e i diritti umani, è tutto sommato uno strumento ancora fragile nelle mani dei poteri globali. Come sanno bene gli studiosi degli effetti del colonialismo, a cominciare da uno dei suoi fondatori, Frantz Fanon[80], qualsiasi forma di dominio e di sfruttamento non è mai veramente effettiva se prima non abbia completamente cancellato le culture e le conoscenze dei dominati. Come abbiamo visto GAFAM scavalca i media tradizionali, veicola i contenuti, riprogramma e orienta le nostre azioni, ecc. ma può essere anche uno pericoloso “specchio” dell’esistente. E questo non va bene. La posta in gioco infatti non è solo la manipolazione delle elezioni o dei consumi. Ogni potere, per realizzare e implementare il suo progetto di dominio, ha bisogno di controllare, ma soprattutto omogeneizzare le culture. E dunque il primo nemico è la diversità. Punto di partenza di questo progetto, come scriveva Fanon, è delegittimare le conoscenze “indigene”, rendendole invisibili all’esterno e indesiderabili all’interno. Quando la conoscenza locale sarà divenuta irrilevante per i suoi stessi detentori, il colonizzatore offrirà un modello vincente, uno standard che i colonizzati non potranno non abbracciare. C’è un momento chiave in questo processo di autospossessamento ed è quello in cui, come nota Paulo Freire[81], a un certo punto l’oppresso vuole essere come l’oppressore. Nel mondo della ricerca, questo processo è già quasi totalmente compiuto. Nel senso che la possibilità di creare e diffondere conoscenze al di fuori dei circuiti e delle piattaforme anglofone (i Five Eyes della produzione scientifica, per capirci), cioè la possibilità di incidere sulla realtà è oggi vicina allo zero.

Ma come è potuto accadere tutto ciò?

Negli ultimi dieci anni, un pugno di grandi editori commerciali, quelli che pubblicano le riviste accademiche di maggior impatto a livello mondiale, sono riusciti a piazzarsi, attraverso imponenti acquisizioni, nei gangli strategici dell’infrastruttura della produzione e distribuzione del sapere accademico[82]. Una ricerca canadese del 2015 ha mostrato che i cinque principali colossi rappresentano più del 50% di tutti gli articoli indicizzati nel database Web of Science, determinando così i prezzi delle riviste, ricavando enormi profitti a danno delle università, dei centri di ricerca e (non da ultimo) dei contribuenti che sovvenzionano la ricerca pubblica[83]. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Ciò che molti ignorano è che questi editori, attraverso il meccanismo del ranking delle università, stabiliscono indirettamente i criteri per valutarle. I ranking hanno uno scopo (e un effetto) simile ai tristemente noti rating delle banche internazionali, fornendo una valutazione basata su criteri fortemente discutibili[84]. E nondimeno rettori e amministratori di grandi e piccole università di tutto il globo attendono queste “classifiche” come i governi del mondo attendono ogni anno il verdetto di Moody’s o di Standard & Poor’s sui titoli sovrani. Uno sguardo alle mappe della distribuzione dei ranking universitari[85] e a quella dei rating sovrani[86] ci mostra che questa comparazione è molto più di una metafora. Se qualcuno crede ancora alla favola che “con la cultura non si mangia”, sovrapponga le due mappe qui sotto, quella dei ranking e quella di Standard & Poor’s: egemonia geopolitica ed egemonia culturale ed epistemica sono due facce della stessa medaglia.

Uno degli effetti strutturali più devastanti di questa concentrazione è l’invisibilità della maggioranza della conoscenza prodotta nelle periferie del mondo. La tendenza era stata già segnalata da uno studio di dieci anni fa, The Geographies of Knowledge, che mappava (in senso letterale) le ineguaglianze nella rappresentazione della produzione scientifica mondiale[87]. L’analisi prendeva in considerazione 9500 riviste indicizzate nel 2009 da Web of Science (sempre lui) nei settori sia scientifico-tecnologici sia umanistico-sociali. La conclusione degli autori fu che Stati Uniti e Regno Unito insieme pubblicavano un numero di riviste indicizzate maggiore di tutto il resto del mondo messo assieme. I dati per altro mostravano che il resto del mondo e le lingue diverse dall’inglese erano appena rappresentate e che, per esempio, la Svizzera occupava una porzione tre volte più grande dell’intero continente africano. L’enormità di tali “ingiustizie epistemiche” ha spinto molti paesi del Sud globale a cercare soluzioni alternative. In questa lotta si è distinta l’America Latina che da vari anni ha iniziato a creare proprie infrastrutture di ricerca per la diffusione di pubblicazioni scientifiche in accesso aperto. E mentre l’Unione Europea cerca faticosamente di raggiungere un traguardo simile con il cosiddetto Plan S, i consorzi latinoamericani hanno da anni creato piattaforme unitarie come SciELO – Scientific Online Library (http://www.scielo.org), Redalyc – Red de Revistas Científicas de América Latina y El Caribe, España y Portugal (http://www.redalyc.org), LA Referencia (http://www.lareferencia.info), e più recentemente AmeliCa (http://amelica.org/). Questi strumenti svolgono un ruolo fondamentale per la libera circolazione della ricerca prodotta nei paesi ispanici e fanno di queste regioni un modello nel mondo dell’accesso aperto alla conoscenza[88].  

Ma molti altri potrebbero essere gli esempi di quella “rivalutazione dei margini” che è in atto in vari punti del pianeta: i venti del sud spirano nel rinnovamento e trasformazione delle pratiche educative[89] come nel campo dei beni comuni[90], della sovranità alimentare[91], ecc. Il COVID-19 sta contribuendo a questo processo, mettendo in discussione molte delle granitiche sicurezze dei vari “centri” e Nord del mondo. Sempre in America Latina, la costruzione di reti comunitarie, basate su hardware e software prodotti o assemblati localmente, ha avuto un ruolo fondamentale nel mantenere la coesione sociale in migliaia di comunità sparse in territori dove persino GAFAM è un lusso[92]. In generale, paesi come Thailandia, Mongolia, Nigeria, Argentina o Vietnam sono stati osservati prima come curiose eccezioni, poi come modelli flessibili per la lotta al virus; anche per questo il COVID è stata definita su «The Lancet» la pandemia dei paesi ricchi: «All’inizio di maggio 2020, oltre il 90% dei decessi per Covid-19 si sono verificati nei paesi più ricchi del mondo; includendo nel gruppo anche Cina, Brasile e Iran, tale numero sale al 96%»[93]. Ma soprattutto, come ha scritto il sociologo africano David Mwambari, «il mito dell’invincibilità occidentale è caduto in pezzi […]. E mentre l’occidente si concentra sulla sua sopravvivenza, [i paesi africani] hanno l’opportunità di liberarsi da relazioni neo-coloniali basate sullo sfruttamento.»[94]      

Tornando al tema iniziale, cioè all’epistemologia del sud, ci piace concludere questo breve excursus nelle possibilità rivoluzionarie della diversità epistemica con le parole che Arturo Escobar dedica alla nuova «ontologia politica» che sta nascendo (o più correttamente riemergendo) grazie all’incontro con la cosmovisione indigena e al suo legame con la Terra:

Se la causa di questa crisi è questo Universo (One-World World), allora la crisi che affrontiamo implica una transizione vero l’opposto, ovvero un Pluri-verso. Questa è una delle premesse delle epistemologie del Sud, che affermano che la diversità del mondo è infinita. In altre parole, che il mondo si compone di molteplici mondi, molteplici ontologie o realtà che sono state escluse dall’esperienza eurocentrica o piuttosto ridotte alla sua logica.[95]

In uno di questi “molteplici mondi” siamo certi si dispiegherà la prossima rivoluzione mordentiana.


Note

[1] Dalla filologia digitale all’edizione-uomo riprende alcuni post di Domenico Fiormonte dedicati a lavori di Mordenti apparsi sulla rivista-blog «Infolet» (https://infolet.it) – per altro da lui tenuta a battesimo nell’Università Tor Vergata nel 2001. Paolo Sordi è autore del paragrafo successivo, Il senso del testo algoritmico, mentre quelli introduttivi e conclusivi, pur se frutto di un lavoro comune, sono attribuibili il primo a Paolo Sordi e l’ultimo a Domenico Fiormonte.

[2] Cfr. in questo volume (p. 79) la citazione che Guido Liguori trae da Gramsci e la rivoluzione necessaria: la rivoluzione è «attuale (il che non significa imminente, e meno che mai inevitabile) vale a dire che essa è all’ordine del giorno della storia.» Ma le rivoluzioni di Raul sono molte, come abbiamo potuto sin qui constatare. Sono almeno tre le monografie che ha dedicato alla “rivoluzione”: oltre al volume su Gramsci appena citato ricordiamo R. Mordenti, La rivoluzione. La nuova via al comunismo italiano, Milano, Tropea, 2003; e forse soprattutto La grande rimozione. Il ‘68-77: frammenti di una storia impossibile, Roma, Bordeaux, 2018; fra tutte le rivoluzioni certamente quella a lui più cara.

[3] Cfr. V. Gerratana, Una lettera, in A. Gramsci, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti (a cura di A. Santucci), Roma, Editori Riuniti, pp. XI-XII.

[4] Fra i molti contributi, ricordiamo una delle più documentate “storie critiche” dell’università italiana: R. Mordenti, L’università struccata, Milano, Punto Rosso, 2010.

[5] Cfr. P. Sordi, D. Fiormonte, Geopolitica della conoscenza digitale. Dal web aperto all’impero di GAFAM, «DigitCult – Scientific Journal on Digital Cultures», s. I, v. IV, 2019, p. 23. doi: https://doi.org/10.4399/97888255263183.

[6] Come scrive Angela Nagel a proposito del movimento USA alt-right, «Non si può negare che essi siano riusciti a diffondere le proprie idee attraverso contenuti mediatici alternativi e quasi esclusivamente online, in assenza di una struttura tradizionale […]. Sembra che, nelle guerre culturali online, chi più abbia saputo far tesoro delle idee della sinistra (dalla fabbrica del consenso di Chomsky alla teoria di Gramsci dell’egemonia e della contro-egemonia), applicandole in maniera strategica, sia stata proprio la destra.» (A. Nagle, Contro la vostra volontà. Come l’estremismo del web è diventato mainstream, Roma, Luiss University Press, 2018, p. 77).  

[7] Cfr. R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, cit. pp. 62-63.

[8] Con questo acronimo si nominano nello specifico Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, ma si intendono oramai per estensione tutte le grandi aziende tecnologiche del “capitalismo digitale”, come Netflix, Airbnb, Uber, Spotify, General Electric, Siemens, ecc. Cfr. N. Srnicek, Capitalismo digitale, Roma, Luiss University Press, 2017.

[9] Cfr. F. Balestrieri, L. Balestrieri, Guerra digitale. Il 5G e lo scontro tra Cina e Stati Uniti per il dominio tecnologico, Roma, Luiss University Press, 2019.

[10] Cfr. S. Bellucci, L’industria dei sensi, Roma, Harpo, 2019.

[11] R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, cit. p. 63.

[12] “Universities are turning to platform providers like Microsoft and Google in ever more comprehensive ways at precisely the moment when university staff are increasingly relating to their institution through the mediation of these digital platforms.” M. Carrigan, Focus: The Platform University, «Discover Society», 1 maggio 2019. https://discoversociety.org/2019/05/01/focus-the-platform-university/.

[13] R. Mordenti, L’università struccata, cit., p. 36.

[14] La situazione in Italia è vergognosa: le piattaforme per la didattica a distanza elencate sul sito del MIUR sono Google, Microsoft e WeSchool (di TIM). Cfr. M. C. Pievatolo, Teledidattica: proprietaria e privata o libera e pubblica?, «ROARS», 8 giugno 2020. https://www.roars.it/online/teledidattica-proprietaria-e-privata-o-libera-e-pubblica/.

[15] Respondus è una suite di programmi acquisita da numerose università italiane per la gestione degli esami, soprattutto scritti e si basa, come spiega una documentata petizione degli studenti dell’Università di Parma (https://www.change.org/p/magnifico-rettore-dell-universit%C3%A0-di-parma-respondus-di-no), su una serie di moduli che prevedono la videoregistrazione della prova, l’installazione di software invasivo sui computer degli studenti, ecc. Sull’introduzione in generale di spyware all’università cfr. S. Lawson, Are Schools Forcing Students To Install Spyware That Invades Their Privacy As A Result Of The Coronavirus Lockdown?, «Forbes», 24 aprile 2020, https://www.forbes.com/sites/seanlawson/2020/04/24/are-schools-forcing-students-to-install-spyware-that-invades-their-privacy-as-a-result-of-the-coronavirus-lockdown/.

[16] R. Mordenti, La grande rimozione, cit. pp. 37-38.

[17] R. Mordenti, Informatica e critica dei testi, Roma, Bulzoni, 2001.

[18] R. Mordenti, L’altra critica, Roma, Meltemi, 2007.

[19] Ibid., p. 141.

[20] Ibid., p. 150.

[21] Ibid., p. 161.

[22] Ibid., p. 154.

[23] R. Mordenti, Informatica e filologia, in Calcolatori e Scienze Umane. Scritti del convegno organizzato dall’Accademia dei Lincei e dalla Fondazione IBM Italia. Milano, Fondazione IBM Italia & Etas Libri, pp. 236-272.

[24] C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, p. 371.

[25] Cfr. D. Fiormonte, Testo Tempo Verità, in Per una critica del testo digitale. Letteratura, filologia e rete, Roma, Bulzoni, pp. 79-94.

[26] R. Mordenti, L’altra critica, cit., p. 159.

[27] Sul tema della geopolitica della conoscenza mi permetto di rimandare a un mio saggio “mordentiano”: D. Fiormonte, Lingue, codici, rappresentanza. Margini delle Digital Humanities, in Filologia digitale: problemi e prospettive. Accademia Nazionale dei Lincei, Anno CDXIV – 2017. Contributi del Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre”, Vol. 135. Roma, Bardi Edizioni, 2007, pp. 114-140.

[28] R. Mordenti, L’altra critica, cit., p. 161.

[29] Un punto di partenza essenziale per questi studi è ancora la Electronic Literature Organization, fondata nel 1999 (https://eliterature.org/).

[30] R. Mordenti, L’altra critica, cit., p. 163.

[31] Per il vecchio testamento, cfr. G. L. Prato, Gli scritti biblici tra utopia del canone fisso e fluidità del testo storico, in D. Fiormonte (a cura di), Canoni liquidi. Variazione culturale e stabilità testuale dalla Bibbia a Internet. Atti del seminario internazionale, Università di Roma Tre, 14-15 giugno 2010, Napoli, ScriptaWeb, 2011, pp. 43-61; per il nuovo testamento cfr. M. Pesce, M. Rescio (a cura di), La trasmissione delle parole di Gesù nei primi secoli, Brescia, Morcelliana, 2011.  

[32] L. Canfora, Filologia e libertà. La più eversiva delle discipline, l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità, Milano, Mondadori, 2008.

[33] R. Mordenti, L’altra critica, cit., p. 152.

[34] Ibid., p. 163.

[35] M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 5.

[36] D. DeLillo, Underworld, Torino, Einaudi, 1997, p. 877.

[37] R. Mordenti, Parádosis. A proposito del testo informatico, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei», Anno CDVIII, Serie IX, 28 (4), 2011, pp. 623–692.

[38] Cfr. supra, p. 98.

[39] Tra queste: Apache, Python, HTML e in genere tutte le raccomandazioni del World Wide Web Consortium (W3C).

[40] M. Priestley, T. J. Sluckin, T. Tiropanis, Innovation on the web: the end of the S-curve?, «Internet Histories», 2020, pp. 1–23. doi: https://doi.org/10.1080/24701475.2020.1747261.

[41] C. Anderson, M. Wolff, The Web Is Dead. Long Live the Internet, «Wired», Agosto 2010, http://www.wired.com/magazine/2010/08/ff_webrip/all/1.

[42] A. Helmond, The Platformization of the Web: Making Web Data Platform Ready, «Social Media + Society», 2015. doi: https://doi.org/10.1177/2056305115603080.

[43] J. Van Dijck, T. Poell, M. De Waal, “Platform Society”. Valori pubblici e società connessa, Milano, Guerini, 2019, p. 27.

[44] M. Sorice, Sociologia dei media. Un’introduzione critica, Roma, Carocci, 2020, p. 169.

[45] «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà» (A. Gramsci, Quaderni del carcere (Q 10), Einaudi, Torino,1975, p. 1331). Sul rapporto fra egemonia culturale gramsciana e le piattaforme cfr. P. Lozzi, Egemonia di piattaforma. Lo smart power della Silicon Valley e le idee di Gramsci per un riscatto net-attivista, Tesi di Laurea Magistrale in Scienze della Comunicazione, Relatore Prof. T. Numerico, Università di Roma Tre, 28 febbraio 2020.

[46] D. B. Nieborg, T. Poell, The platformization of cultural production: Theorizing the contingent cultural commodity, «New Media & Society», 2018.

[47] Wu Ming, L’amore è fortissimo, il corpo no. 10 anni di esplorazioni tra Giap e Twitter, «Giap», 9 settembre 2019, https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/12/lamore-e-fortissimo-il-corpo-no-1-twitter-addio/.

[48] Cfr. E. Bennett, How Iowa Flattened Literature, «The Chronicle of Higher Education», 10 febbraio /2/2014 https://www.chronicle.com/article/How-Iowa-Flattened-Literature/144531.

[49] R. Mordenti, I sensi del testo, Roma, Bordeaux, 2016, pp. 13-26.

[50] Una parola chiave delle narrazioni odierne, che si ritrova a far mostra di sé nei social media attraverso una citazione di Dostoevskij decontestualizzata e trasformata in uno slogan del tutto svuotato di senso, tanto indiscutibilmente attraente appare: «la bellezza salverà il mondo».

[51] S. Mihm, How the Department of Defense Bankrolled Silicon Valley, «The New York Times», 9 luglio 2019, https://www.nytimes.com/2019/07/09/books/review/the-code-margaret-omara.html.

[52] Don’t make me think!, recitava il titolo di uno storico manuale di web design di Steve Krug. “Studiati per gli idioti”, direbbe (e dice) Tito Orlandi a proposito dei sistemi user friendly. (Cfr. supra, p. 181).

[53] L. Emerson, Reading writing interfaces: from the digital to the bookbound, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2014.

[54] Cfr. S. Marazza, App credibili: interfaccia grafica, persuasione, tecnologia e social media, «Infolet», 22 gennaio 2020. https://infolet.it/2020/01/22/app-credibili-persuasione-tecnologia-social-media/.

[55] Cfr. S. Calabrese (a cura di), Narrare al tempo della globalizzazione, Roma, Carocci, 2016, pp. 75-78.

[56] E. Pariser, Il filtro: quello che Internet ci nasconde, Milano, Il saggiatore, 2012.

[57] M. Serazio, B. E. Duffy, Social Media Marketing, in The SAGE Handbook of Social Media, London, SAGE, 2018, pp. 481-496.

[58] P. Sordi, La macchina dello storytelling. Facebook e il potere di narrazione nell’era dei social media, Roma, Bordeaux, 2018.

[59] T. Numerico, D. Fiormonte, F. Tomasi, L’umanista digitale, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 116.

[60] R. Mordenti, Parádosis. A proposito del testo informatico, cit., p. 664.

[61] Alcune parti di questo paragrafo riprendono D. Fiormonte, Gli Imperi della Conoscenza da GAFAM a Elsevier, «ROARS», 16 marzo 2020. https://www.roars.it/online/gli-imperi-della-conoscenza-da-gafam-a-elsevier/.

[62] Cfr. per esempio il classico C. A. Alvares, Decolonizing history. Technology and culture in India, China and the West 1492 to the present day, Goa, Other India Press – New York, Apex Press, 1997 o il recente M. Graham (a cura di), Digital Economies at Global Margins, Cambridge, MA, MIT Press, 2019. Sul tema specifico della rappresentazione digitale si vedano le importanti riflessioni di Paolo Monella in questo volume.

[63] B. de Sousa Santos, J. M. Mendes (a cura di), Demodiversidad. Imaginar nuevas posibilidades democráticas, Madrid, Akal, 2017, p. 67.

[65] Cfr. L. Roth, Looking at Shirley, the Ultimate Norm: Colour Balance, Image Technologies, and Cognitive Equity, «Canadian Journal of Communication», Vol. 34 (2009), pp. 111-136.

[66] Ca_Gi., Perché è necessario e urgente liberarsi di Google – e come cominciare a farlo, «Giap», 6 marzo 2020. https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/degoogling/.

[67] Si veda al riguardo l’iniziativa Web We Want (https://webwewant.org/), promossa dalla World Wide Web Foundation, insieme al Contratto per il web (https://contractfortheweb.org).

[68] A. FernÁndez, M. S. Barreiro, The Algorithm Is Not My Boss Anymore: technological appropriation and (new) media strategies in Riders x Derechos and Mensakas, «Revista Contracampo», 39, 1, 2020. https://periodicos.uff.br/contracampo/article/view/38404.

[69] Un ottimo punto di partenza per esplorare questa storia è l’intervista a Giacomo Mazzone pubblicata su Infolet: https://infolet.it/2020/02/04/la-guerra-sconosciuta-per-il-controllo-della-rete-per-una-microstoria-dellinternet-governance/.

[70] Cfr. S. Rodotà, Il mondo della rete. Quali i diritti quali i vincoli, Roma-Bari, Laterza-la Repubblica, 2014.

[71] Fra gli effetti della pandemia vi è stato anche il riemergere delle questioni legate alla sovranità digitale, sia a livello nazionale sia europeo. Nel primo caso possiamo citare il discorso alla Camera del Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, il 23 giugno 2020 (https://www.garanteprivacy.it/), nel secondo il lancio del progetto GAIA-X, un “data infrastructure for Europe”, ovvero la “nuvola” europea che dovrebbe sfidare i (o forse sfuggire dai) giganti della Silicon Valley: https://www.data-infrastructure.eu/GAIAX/Navigation/EN/Home/home.html.  

[72] Just Net Coalition, Digital Justice Manifesto. A call to our own digital future, p. 3. Shoshana Zuboff parla di «architetture senzienti», cfr. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss University Press, 2019, p. 511.

[73] Just Net Coalition, cit., p. 6.

[74] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 9.

[75] Cfr. C. Frediani, Come CIA e servizi segreti tedeschi hanno spiato alleati e avversari vendendo macchine antispionaggio, «Valigia blu», 16 febbraio 2020. https://www.valigiablu.it/cia-germania-spionaggio-alleati/.

[76] Cfr. M. O’Mara, The Code. Silicon Valley and the Remaking of America, New York, Penguin Press, 2019.

[77] https://nri.ntc.columbia.edu/.

[78] Cfr. B. Reiter (a cura di), Constructing the pluriverse. The Geopolitics of Knowledge, Durham and London, Duke University Press, 2018.

[79] Cfr. A. Kwet, Digital colonialism: US empire and the new imperialism in the Global South, «Race & Class», Vol. 60(4), pp. 3-26. https://doi.org/10.1177/0306396818823172.

[80] Cfr. F. Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 2007.

[81] Cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2018.

[82] Cfr. D. Fiormonte, E. Priego, Knowledge Monopolies and Global Academic Publishing. Paper presented at the conference The Toronto School. Then, Now, Next, University of Toronto, 13-16 ottobre 2016. https://thewinnower.com/papers/4965-knowledge-monopolies-and-global-academic-publishing

[83] I “Big Five” dell’editoria scientifica sono: Reed-Elsevier, Wiley-Blackwell, Springer, Taylor & Francis e Sage. Cfr. V. Larivière V, S. Haustein, P. Mongeon, The Oligopoly of Academic Publishers in the Digital Era, «PLoS ONE», 10(6), 2016. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0127502.

[84] Cfr. C. Neylon, Do university rankings measure anything at all?, «Wonkhe», 25 settembre 2019. https://wonkhe.com/blogs/do-university-rankings-measure-anything-at-all/

[85] http://www.shanghairanking.com/

[86] https://it.wikipedia.org/wiki/Rating#/media/File:Countries_by_Standard_&_Poor’s_Foreign_Rating.png.

[87] M. Graham, S. A. Hale, M. Stephens, C. M. Flick (a cura di), Geographies of the World’s Knowledge, London and Oxford, Convoco Foundation and Oxford Internet Institute, 2011.

[88] Cfr. J. P. Alperin, G. Fischman, Hecho en Latinoamérica: acceso abierto, revistas académicas e innovaciones regionales, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, CLACSO, 2015. http://biblioteca.clacso.edu.ar/clacso/se/20150722110704/HechoEnLatinoamerica.pdf.

[89] Cfr. M. Guilherme, G. Gunther Dietz, Introduction. Winds of the South: Intercultural university Models for the 21st Century, «Arts & Humanities in Higher Education», 16(1), 2017, pp. 7-16.

[90] Cfr. D. Bollier, S. Helfrich, The Wealth of the Commons. A World Beyond Market and State, Amherst, Levellers Press. http://wealthofthecommons.org/.

[91] Cfr. V. V. Shiva, Seed sovereignty, food security: Women in the vanguard of the fight against GMOs and corporate agriculture, Berkeley, California, North Atlantic Books, 2016.

[92] I. Aguedad, P. Contreras-Pulido, Acceso universal y empoderamiento digital de los pueblos frente a la brecha desigual. Nuevas formas de diálogo y participación, «Trípodos», 46, 2020, pp. 9-11.

[93] R. Cash, V. Patel, Has COVID-19 subverted global health?, «The Lancet», Vol. 395, May 5, 2020, p. 1687. https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)31089-8.

[94] D. Mwambari, The pandemic can be a catalyst for decolonisation in Africa, «Al Jazeera», 15 aprile 2020. https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/pandemic-catalyst-decolonisation-africa-200415150535786.html.

[95] A. Escobar, Sentipensar con la Tierra: Las Luchas Territoriales y la Dimensión Ontológica de las Epistemologías del Sur, «Revista de Antropología Iberoamericana», V. 11, N.1, Enero – Abril 2016, p. 15.

Il disegno della copertina di questo articolo è di Massimo Bucchi.

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