Il 15 luglio 2020 l’account Instagram Astagfirollah ha pubblicato un post, divenuto in brevissimo tempo virale, che denunciava come i colossi digitali Google e Apple avessero ufficialmente rimosso la Palestina dalle rispettive applicazioni di mappatura . Il post di Instagram ha suscitato critiche diffuse sui social media e accuse a entrambe le società di aver tentato di cancellare l’identità palestinese con lo scopo di soddisfare gli obiettivi geopolitici americani e israeliani.
Ma le prime proteste contro le politiche discriminatorie di Google in realtà risalgono al 2016, quando Google era già entrata nel mirino del “Forum dei giornalisti palestinesi” per aver cancellato la Palestina dalle sue mappe digitali, favorendo così Israele. L’azienda di Mountain View, interpellata dal quotidiano spagnolo El País, si è difesa sostenendo di non aver modificato le informazioni che riguardano la regione, in quanto “non c’è mai stata un’etichetta Palestina su Google Maps, tuttavia abbiamo scoperto un bug che rimuoveva le etichette per Cisgiordania e Gaza”. Sempre nel 2016 era stata lanciata una petizione su change.org – “Google: Put Palestine on your Maps!” tutt’ora attiva e che ad oggi ha raccolto più di 800.000 firme –per il riconoscimento della Palestina e per la rappresentazione e l’identificazione dei territori palestinesi occupati da Israele da parte di Google Maps
Eyad Rifai, capo del Sada Social Center, associazione che si occupa di monitorare e difendere i diritti digitali palestinesi, ha dichiarato, in un’intervista al quotidiano online The Media Line, che la Palestina non viene riportata sulle mappe di Google e Apple: gli unici luoghi ad essere evidenziati sono la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Ha aggiunto che dall’inizio del 2020, Google aveva iniziato a rimuovere i nomi delle città e delle strade palestinesi da Maps mantenendo le strade israeliane – con il rischio per i palestinesi che seguivano le indicazioni basate sulle mappe di ritrovarsi in un insediamento israeliano.
In un delicato contesto come quello israelo-palestinese Google detiene un potere immenso: i dati geografici digitali del Big G sono utilizzati da miliardi di utenti in tutto il mondo e ciò si traduce nella legittimazione di alcune rappresentazioni del mondo fisico rispetto ad altre. Secondo il rapporto del centro arabo per lo sviluppo dei social media questa rappresentazione ignora efficacemente i punti di controllo e le restrizioni di movimento a cui i palestinesi sono soggetti, mentre contribuisce alla normalizzazione degli insediamenti israeliani dichiarati illegali ai sensi del diritto internazionale. Violando l’impegno espresso dallo stesso Google verso la tutela dei diritti umani e l’uguaglianza razziale, nonché il riconoscimento da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite della Palestina come stato sovrano. Così facendo, Google Maps promuove il racconto dell’annessione israeliana e cancella digitalmente l’identità palestinese.
Questo è ulteriormente illustrato dal caso della proclamazione di Gerusalemme a capitale di Israele, che ignora lo status contestato della città ed è in contrasto con la risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Ma Google non è la sola azienda dei GAFAM a violare i diritti digitali palestinesi.
Facebook, ad esempio, è stata accusata dalle organizzazioni civili palestinesi di attuare politiche fortemente discriminatorie nei confronti della popolazione palestinese. Secondo il rapporto di Adalah (organizzazione per i diritti umani e centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele), fin dalla seconda metà del 2015 è stata gestita un’unità informatica a stretto contatto tra Facebook e Twitter con l’ufficio del procuratore generale di Israele con l’obiettivo di rimuovere contenuti online. Una delle principali ragioni del sospetto dell’effettiva collaborazione tra Facebook e lo stato ebraico è sicuramente la fiorente industria di alta tecnologia che rappresenta un mercato altamente redditizio per Facebook. Un’altra evidente ragione è l’ufficio di Facebook a Tel Aviv, che rende la compagnia più soggetta all’influenza delle decisioni dei funzionari israeliani. L’istituto di ricerca Al-Shabaka in un suo report fa luce sulla nomina di Jordana Cutler – la principale consigliera di Netanyahu – a capo della politica e comunicazione di Facebook nell’ufficio israeliano.
Lo stesso Mark Zuckerberg è stato spesso accusato di collaborare con lo stato d’Israele dal momento che molti post, video o account di alcuni attivisti palestinesi sono stati rimossi. Facebook infatti segnala il movimento sionista come un “gruppo globalmente protetto” e questo si traduce nella rimozione di tutti i contenuti sgraditi. Benché Facebook neghi ogni discriminazione tra palestinesi ed israeliani, gli utenti palestinesi hanno documentato interruzioni degli account personali Facebook di giornalisti e di organizzazioni di informazione. Nello stesso report di Al-Shabaka vengono evidenziati numerosi casi – tra cui quello di quattro giornalisti dell’agenzia di notizie palestinese Shehab e di tre giornalisti della rete Al Quds News – in cui gli account sono stati chiusi. Tali episodi hanno generato un’ondata di proteste virtuali e campagne online rappresentate dagli hashtag #FBCensorsPalestine e #FacebookCensorsPalestine. Facebook si è scusata, provando a giustificare l’accaduto come un errore. A conferma della tesi – secondo cui lo stretto legame tra governo israeliano e Zuckerberg si traduce in politiche discriminatorie nei confronti dei contenuti palestinesi— , vi è la “Legge Facebook” approvata nel 2018 dal parlamento israeliano che dichiara la possibilità di imporre ai social network di ripulire le pagine che riportano “incitamenti all’odio” o che “rappresentano un pericolo per la sicurezza di individui, del pubblico, del Paese.” Il disegno di legge autorizzerebbe il tribunale a ordinare l’eliminazione di contenuti di Internet se questi “danneggiano la sicurezza delle persone, la sicurezza pubblica, economica, statale o vitale delle infrastrutture”.
Il Centro MADA –NGO che si occupa della promozione e della difesa della libertà di espressione nei territori Palestinesi– ha spiegato che Facebook si comporta in modo unidirezionale, ignorando l’enorme quantità di discorsi di odio e incitamento israeliani contro i palestinesi. Va notato che Facebook ha dichiarato nel suo Rapporto sulla trasparenza di aver ricevuto nel corso dell’anno 2018 un totale di 1321 richieste israeliane in merito alla chiusura e al blocco di siti web e di aver “trattato” circa il 72% di essi. Nel 2019, ha ricevuto un totale di 709 richieste israeliane e, secondo quanto riferito, “ha gestito il 76% di esse.”
In un report redatto dall’Arab Center for the Advancement of Social Media in cooperazione con l’Association for Progressive Communications vengono evidenziate le politiche discriminatorie e illecite condotte da altre multinazionali digitali come le aziende pioniere del turismo online quali Airbnb, Trip Advisor, Expedia e Booking. Dal report citato si evince che le quattro multinazionali riportano sui loro siti inserzioni di proprietà o attrazioni locate in insediamenti illegali in terra palestinese. Queste violazioni sono state ampiamente documentate anche dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e da organizzazioni internazionali indipendenti, tra cui Amnesty International e da molteplici organizzazioni sia palestinesi sia Israeliane. Nel rapporto di Amnesty International viene sottolineato che intraprendendo attività commerciali in località di insediamenti illegali israeliani in terra palestinese, le quattro aziende (Airbnb, Booking, Expedia, Trip Advisor) promuovono lo sviluppo e l’espansione di insediamenti illegali. La promozione come destinazione turistica di insediamenti Israeliani su territori palestinesi ha, inoltre, l’effetto di “normalizzare” e legittimare il pubblico ad una situazione illegale riconosciuta da numerose leggi internazionali.
Tuttavia, la questione della violazione dei diritti digitali dei palestinesi non riguarda solo le piattaforme citate. Tali diritti vengono ulteriormente violati dalle tre diverse giurisdizioni che attraversano e limitano le libertà del popolo palestinese: lo stato di Israele, l’Autorità Palestinese guidata da Al- Fatah in Cisgiordania, e l’amministrazione di fatto di Hamas nella Striscia di Gaza.
Negli ultimi anni, in Cisgiordania, si è registrato un forte incremento degli attacchi al diritto di espressione, alla privacy e alla libertà dei media, per mano dell’Autorità palestinese. A confermare questa tendenza vi è la promulgazione della legge sui crimini elettronici decretata nel giugno 2017 e modificata dal decreto (16) del 2018. Un rapporto di Amnesty International definisce la nuova legge una violazione a tutti gli effetti dell’articolo 19 della Legge fondamentale palestinese – che garantisce il diritto alla libertà di espressione nei confronti dei cittadini palestinesi – e dell’articolo 27, il quale vieta la censura dei media, decretando la libertà di stampare, pubblicare e trasmettere informazioni. In un documento redatto dall’organizzazione Human Rights Watch si legge che nell’aprile 2019 l’Autorità palestinese ha fermato e trattenuto in detenzione preventiva 1.134 persone con l’accusa di provocare e incitare al dissenso pubblico: 752 di queste detenzioni erano correlate a post sui social media.
Oltre alle violazioni del governo di Al- Fatah nei confronti dei palestinesi in Cisgiordania, nel territorio della Striscia di Gaza, le libertà digitali vengono minacciate anche da parte dell’amministrazione di fatto di Hamas.
La frammentazione politica e geografica del popolo palestinese ha ripercussioni anche sul piano dell’accesso a Internet, poiché le numerose divisioni e disuguaglianze contribuiscono alla dilatazione del divario digitale. Ai sensi degli Accordi di Oslo, ai palestinesi viene concesso il diritto di costruire e operare e sistemi e infrastrutture di comunicazione indipendenti, compresa le reti di telecomunicazioni, una rete televisiva e una rete radio. In una nota di valutazione del settore ICT palestinese pubblicata nel 2016 la Banca Mondiale ha identificato una serie di intralci al possibile sviluppo dell’utilizzo e dell’accesso a Internet. Tra questi troviamo il controllo delle trasmissioni via etere, volto a limitare l’utilizzo delle frequenze da parte degli operatori palestinesi, e il controllo totale sull’importazione di attrezzature essenziali e tecnologie, oltre confine e tra territori.
Il governo israeliano, spiega l’ex ministro palestinese delle comunicazioni e della tecnologia per l’informazione, Mashhour Abudaka, fa appello a istanze di sicurezza per mantenere il controllo delle infrastrutture di rete, sfruttando a proprio vantaggio l’articolo 36 degli accordi di Oslo, secondo cui “i palestinesi possono importare le loro apparecchiature esclusivamente nel caso in cui le reti di telecomunicazioni siano totalmente indipendenti da Israele”. Per mantenere tale dominio, Israele, esercita il controllo totale sull’importazione di attrezzature essenziali e tecnologie, oltre confini e tra territori. L’unico cavo in fibra ottica di Gaza, che permette la connessione con il resto del mondo, si trova in Israele, rendendo le comunicazioni completamente dipendenti dallo Stato ebraico e la sorveglianza ancora più efficiente. Per contestualizzare questa situazione è importante notare che, secondo la legge israeliana, il diritto alla libertà di espressione non è protetto dalla costituzione dello Stato ebraico. Come riportato nel rapporto dell’Arab Center for the Advancement of Social Media questo diritto è salvaguardato unicamente dalla decisione della Corte suprema israeliana e dall’obbligo di Israele in quanto membro ONU e firmatario del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Negli ultimi anni dunque la rete è diventata un nuovo terreno per il conflitto israelo-palestinese e in generale il nodo delle tensioni geopolitiche nella regione. Israele utilizza i social media per monitorare ciò che i singoli palestinesi dicono e fanno e per raccogliere ed analizzare informazioni sui comportamenti della popolazione palestinese in generale. Questo controllo nasce dai tumulti della terza Intifada del 2015. Israele ha accusato i social network di essere la causa di questa rivolta dal momento che prese piede su impulso di alcuni giovani rivoluzionari e non su ordine dei governi di Fatah o Hamas. Ciò ha portato all’arresto di 800 palestinesi solamente a causa dei loro post sui social network, soprattutto su Facebook, la piattaforma più utilizzata dai palestinesi. Da quel momento il governo israeliano ha effettuato molti arresti basandosi su un metodo poliziesco rivelato dal quotidiano israeliano Haaretz: gli algoritmi creano profili di coloro che Israele considera come probabili attentatori palestinesi. Il programma monitora decine di migliaia di account Facebook di giovani palestinesi, cercando termini che possano apparire sospetti come shaheed (martire), Stato sionista, Al Quds (Gerusalemme) o Al Aqsa. L’intelligence israeliana, inoltre, crea falsi account Facebook al fine di tracciare e ottenere accesso ad alcuni profili o per agganciare alcuni palestinesi allo scopo di ricavare informazioni private che altrimenti non sarebbero accessibili. Sempre secondo il network Al-Shabaka, nell’ottobre 2015, parecchi attivisti palestinesi hanno riferito di esser stati contattati tramite messaggi da account Facebook che esibivano nomi arabi e fotografie di bandiere palestinesi, cercando di ottenere i nomi dei partecipanti alle proteste.
Fra le migliaia di arresti di uomini, donne e bambini effettuati nel 2019 è emblematico il caso di una giovane donna di Hebron, Fidaa Da’mas, arrestata in un’incursione israeliana nella sua casa nel cuore della notte. Secondo quanto riportato dall’Associazione palestinese per i diritti umani Addameer, il governo israeliano accusava Fidaa di gestire un account Facebook “estremista” che avrebbe pubblicato contenuti che incitavano all’odio e al terrorismo. Il suo processo e le sue domande ruotavano attorno a post pubblicati e alle immagini condivise che l’accusa militare utilizzava per provare l’adesione della giovane donna alle forze di resistenza. L’accusa conteneva anche i dettagli delle quantità di “Mi piace” e “condivisioni” presenti nei post. Il tribunale militare ha condannato Fida a 95 giorni di detenzione effettiva. I social media e in particolar modo Facebook, la piattaforma digitale più utilizzata nella regione del MENA, occupano una posizione significativa nello scenario mediatico palestinese e il loro utilizzo ha profonde ripercussioni sul conflitto israelo-palestinese. In un solo giorno all’inizio del maggio 2020 Facebook ha disattivato almeno 52 account appartenenti a giornalisti e attivisti palestinesi.
Le politiche delle grandi multinazionali digitali da Google a Facebook, da Booking ad Airbnb, contribuiscono a cancellare e frammentare l’identità del popolo palestinese, sfuggendo a qualsiasi responsabilità. La violazione del Diritto internazionale umanitario della Quarta convenzione di Ginevra – secondo il quale uno Stato sovrano non può annettere un territorio estero occupato militarmente – è un tema tremendamente attuale, in seguito all’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump del “patto del secolo”, che prevede l’annessione della Cisgiordania e della valle del Giordano allo stato di Israele. Il piano è una annessione di fatto che calpesta il diritto internazionale e mette un’ipoteca sul diritto palestinese all’autodeterminazione.
Il caso della Palestina è emblematico e complesso sia a livello geopolitico sia a livello giuridico-legislativo. La frammentazione politica e geografica dei palestinesi diviene terreno fertile per i neo-colonizzatori digitali e per i governi oppressori, così che militarizzazione del territorio e sorveglianza si saldano in una subdola e ininterrotta repressione su due livelli: offline e online.
L’immagine di copertina è tratta da http://raseef22.net
Articolo meraviglioso. Grazie per aver dato luce a fatto così gravi e sconosciuti