Il partito piattaforma: così Paolo Gerbaudo definisce la forma di organizzazione politica dell’era digitale che ha sostituito il “partito televisivo”, a sua volta subentrato al “partito di massa”. Se quest’ultimo era lo specchio novecentesco di una società oramai industrializzata e rifletteva al suo interno la struttura gerarchica e articolata della fabbrica (insediamento forte nel territorio, integrazione con altre forme organizzative sociali e culturali, radicamento di classe, ideologia delineata ed esplicitata), affidando alla stampa (e magari alla tipografia posseduta dal partito stesso) le azioni di propaganda, il partito televisivo (che altri definiscono anche come “partito d’opinione” o “partito cartello”) era un partito vicino al terziario che faceva a meno della struttura “fordista” della forma che lo ha preceduto, così come fa a meno del suo apparato ideologico e della sua militanza, rispondendo non a interessi di classe definiti ma a desideri e opinioni intercettati attraverso il canale di comunicazione privilegiato del suo tempo: la televisione.
Il partito piattaforma porta a un nuovo livello la trasformazione della politica come un’impresa di servizi in cui contano le doti comunicative personali del leader nei talk show e le tecniche di marketing applicate al mercato elettorale, una trasformazione già innestata dalla mediatizzazione televisiva. Ma, secondo Gerbaudo, sarebbe riduttivo e scorretto considerare il partito dell’era digitale una mera evoluzione del partito della TV: questa forma, innanzitutto, riscopre una partecipazione di massa riattivata dalle funzionalità disintermediate dei mezzi e dispositivi digitali di comunicazione, il World Wide Web e il personal computer prima, le social app e gli smartphone poi, mutando da essi le proprie caratteristiche costitutive e soprattutto la propria missione: la partecipazione diventa il fine e non il mezzo. È l’engagement l’obiettivo del partito piattaforma, per raggiungere il quale serve un rapporto ancora più diretto tra il leader e i militanti, diventati fan, follower, amici. Il risultato è una ulteriore concentrazione del potere personale del vertice, il leader di partito è un uomo solo al comando, in grado di interagire con la base senza essere costretto a interpellare piani di comunicazione intermedi come quelli del partito, della stampa o della televisione. Basta il profilo personale su Instagram. Nasce, conclude Gerbaudo, un iperleader che si modella sulla figura dell’influencer: uno storyteller di se stesso e del suo prodotto.
Forse siamo ancora in quella che Pippa Norris direbbe l’età postmoderna della comunicazione politica, secondo una tripartizione che vede un’età premoderna dalla fine del XVIII secolo fino agli anni Cinquanta del Novecento e un’età moderna dagli anni Sessanta agli anni Ottanta e che sembra coincidere con l’evoluzione, anche mediatica, appena descritta delle forme partito. In realtà, e assumendo come punto di osservazione la realtà italiana, appare evidente come siamo di fronte a un’altra, recente svolta della comunicazione politica e dell’evoluzione dei partiti: dalla nascita del blog di Beppe Grillo all’exploitation dei profili social dei leader politici attuali assistiamo al trasferimento dello spazio di mobilitazione dalla rete aperta, ipertestuale e per certi versi caotica del Web, alla rete chiusa, standardizzata e incorporante delle app (perché peraltro di mobilitazionismo piuttosto che di partecipazione sarebbe oramai corretto parlare, data la fugacità e la fluidità del coinvolgimento politico del nostro tempo). I numeri dell’engagement di partiti e leader italiani raccolti da Daria Macrì dimostrano non soltanto il tramonto definitivo dell’era televisiva e del partito inteso come entità collettiva, ma anche il tramonto di un’era digitale che è quella del Web, ultimo simulacro, per quanto immateriale, di un luogo — un sito — in cui condividere una visione del mondo di una comunità che si ritrova non più nella sede locale ma online. Al posto del sito, un profilo personale su un mezzo di proprietà di un’azienda globale, usato non tanto come ripetitore di notizie del partito o luogo di ascolto di commenti della base a vicende politiche, quanto palco di una narrazione individuale che, umanizzando senza soluzione di continuità la figura del politico, accostandola alla vita quotidiana dei follower (le foto insieme ai figli, i pasti in pizzeria), fa leva politica ed elettorale sul loro quotidiano coinvolgimento emotivo, misurabile in termini di engagement. Michele Sorice ed Emiliana De Blasio parlano a questo proposito di funzionalità intrinseca delle piattaforme digitali a un neoliberismo dal volto umano, che offre una partecipazione depoliticizzata all’attivismo civile, depotenziato fino a diventare un tool tecnico non di governo ma di mera governance, un modello aziendale di corto respiro efficientista della politica e della cosa pubblica.
La comunicazione politica al tempo dei social media investe dunque non tanto uno scambio di un messaggio da un mittente a un destinatario che condividono un codice trasmesso attraverso un canale di contatto, quanto il modo in cui cittadine e cittadini partecipano oramai alla vita civile (e democratica) di un Paese, essendo manifesto come questa partecipazione sia solo in apparenza disintermediata, perché in realtà si esplicita attraverso le regole di ingaggio imposte da mezzi di comunicazione che hanno come ultimo, vero scopo la profilazione di ogni singolo partecipante alla scambio comunicativo. Di fronte a una macchina che processa dati personali, privati, pubblici, commerciali e politici, valutando interazione dopo interazione, il sentiment in base al quale costruire, produttivamente, la più pertinente interazione successiva (sia essa sponsorizzata o meno), a essere in gioco è la nostra stessa capacità di pensare. In un articolo pubblicato su “DigitCult”, Domenico Fiormonte e io abbiamo ricordato una frase attribuita a Steve Bannon, a proposito del caso Cambridge Analytica: se vuoi cambiare la politica, devi cambiare la cultura, e se vuoi capire la cultura, devi capire quali sono le unità minime della cultura. In altre parole, i singoli, infiniti, frammentari dati in input sui social media diventano, in un output processato dagli algoritmi dei software di analisi a disposizione delle piattaforme, un singolo, grande frame all’interno del quale costruire una macchina globale della propaganda mai vista in precedenza, tale da trasformare, ad esempio, il partito repubblicano USA in un partito della classe operaia.
Ma la cornice non si salda solo nelle quinte delle procedure e dei codici degli algoritmi o nei pronostici predittivi dei messaggi da inviare. La propaganda e la retorica della macchina dello storytelling si servono di una nuova, formidabile arte che è di fronte ai nostri occhi, a portata letterale di mano: il design delle interfacce utente. Hardware e software, computer e sistemi operativi, smartphone e app giocano un ruolo, forse sottovalutato e dato per scontato, ma cruciale. Da un lato forniscono un canale di connessione e trasmissione permanente e pervasivo alle tecniche di narrazione e persuasione in atto attraverso la rete, dall’altro sono esse stesse l’output applicativo di principi e tecniche retoriche che nelle discipline informatiche sono catalogate sotto il termine di “usabilità” o sintetizzate da locuzioni come “user friendly” (del resto l’amicizia è un campo semantico fondante nel padre di tutti i social media, Facebook). Se è vero che ogni interfaccia di lettura è anche un’interfaccia di scrittura, si può ben comprendere come la progettazione dei sistemi operativi dei digital device e delle app influenzi in partenza la nostra capacità (o incapacità) di interpretare prima e modellare poi il mondo che ci circonda. Già nel 1990 Rob Swigart notava come le metafore del computer (la scrivania in primis) creassero pattern di azionabilità capaci di invertire la relazione di controllo tra uomo e macchina, macchina che finisce per controllarci, inconsapevoli di essere controllati. A maggior ragione, se le interfacce puntano, come ha dimostrato Lori Emerson, alla scomparsa dell’interfaccia stessa, con la metafora della scrivania che si è volatilizzata in una nuvola di applicazioni e dati sempre a disposizione eppure inafferrabili. Diventando invisibile, l’interfaccia diventa anche sempre meno leggibile, e di conseguenza scrivibile, da parte dell’utente, che crede di impartire istruzioni alla macchina, quando invece è la macchina a ordinare all’utente di agire.
Illustra bene Sara Marazza, a proposito di Facebook, che l’interfaccia della social app è un trionfo di chiamate all’azione nei confronti dell’utente (CTA, Call to Action, nel gergo del web design): con appeal che infonde affidabilità e credibilità, ma imperativamente, e sfruttando tecniche che interrompono il flusso di pensiero, l’applicazione guida senza sosta gli utenti ad alimentarla, così che le interazioni possano generare le quantità enormi di dati di cui ha bisogno per produrre un perdurante, attendibile effetto di novità e freschezza, che innesca un ciclo senza sosta di attrazione all’uso ripetuto e compulsivo. Seamlessness, dice Emerson: tutto questo accade senza che intervengano linee di demarcazione a tracciare confini da un punto a un altro punto, da un’azione all’altra, da un contenuto a un altro contenuto, da una piattaforma a un’altra forma, da un’interfaccia a un’altra interfaccia, da un backend a un frontend, tutto è incorporato nella gabbia invisibile di 320 pixel della social app, quando invece, e qui ecco un ennesimo turning point rispetto alla prima era dei media digitali, il motore delle connessioni ipertestuali costringeva il navigatore ad atterrare su siti l’uno diverso dall’altro, una partecipazione semantica sì ardua, ma attiva alla costruzione del senso del percorso di conoscenza. Che questa gabbia invisibile sia stata oramai del tutto interiorizzata dai cosiddetti “nativi digitali”, convinti di navigare in rete solo grazie a Google e Facebook, non è altro che il capolavoro di una narrazione velenosa che tramuta magicamente la standardizzazione e l’omologazione dei comportamenti di una massa di due miliardi di persone in un’innovazione e una rivoluzione in grado di produrre le primavere arabe, per dirla con Jarett Kobek. Don’t make me think!, recitava il titolo di uno storico manuale di web design di Steve Krug ed è come se la logica progettuale dei device e delle app che governano le nostre interazioni vitali quotidiane abbia portato a termine il compito, rendendoci schiavi dei principi di piacere, soddisfazione, efficienza e gratificazione e liberi dai pesi del pensiero e della riflessione.