Quando nel 1989 Tim Berners-Lee scrisse la sua proposta per lo sviluppo di quello che sarebbe diventato il World Wide Web, le Macintosh Human Interface Guidelines, ovvero le regole generali che gli sviluppatori di software per Macintosh avrebbero dovuto seguire per progettare l’interfaccia del sistema operativo e delle sue applicazioni, esistevano da cinque anni. Presentando il 24 gennaio 1984 il primo Mac, l’azienda orientò tutta la produzione successiva di software a interfaccia grafica in un sistema di regole aggiornato nell’edizione del 1995.
Secondo le Guidelines, l’interfaccia grafica deve dare all’utente la sensazione di agire sugli oggetti rappresentati nello schermo, in una manipolazione diretta che però viene solo percepita come tale. A contribuire alla percezione di intervento è il vedi-e-punta, che infonde all’utente la sensazione di agire sugli oggetti sullo schermo secondo un modello mentale che il software ha il compito di far coincidere con il proprio modello progettuale. Per la teoria dei modelli mentali di Donald Norman, infatti, è fondamentale che il sistema, ovvero l’oggetto dell’interazione, sia in grado di comunicare chiaramente e coerentemente il suo funzionamento effettivo, altrimenti l’utente costruirà un modello mentale sbagliato. Nel confronto tra i due modelli, la strategia del sistema deve essere quella di concedere la vittoria al modello dell’utente, la più facile possibile, restituendogli feedback di efficacia, efficienza e soddisfazione, i tre valori attorno ai quali ruota la disciplina che prende il nome di usabilità.
Dalla metà degli anni Novanta e con l’espansione globale del Web, la riflessione sull’usabilità si è spostata sullo studio delle interfacce online, inaugurando un ambito di studio chiamato Usability Engineering da Jakob Nielsen. Al di fuori del recinto chiuso del sistema operativo, fosse Macintosh o Windows, il Web ha dato vita a miliardi di pagine, e dunque interfacce, sempre nuove e senza precedenti nell’esperienza degli utenti e dei corrispondenti modelli mentali, interfacce complesse e difficili da padroneggiare per un pubblico di massa non esperto che si confrontava già con un nuovo software (il browser) di un sistema operativo di cui aveva interiorizzato (o stava interiorizzando) il funzionamento. In assenza di linee guida “ufficiali”, si trattava di applicare i principi dell’usabilità e della teoria dei modelli mentali alle interazioni sulla rete, sfruttando il vantaggio concesso dalla tracciabilità dei comportamenti online: grazie ai dati richiesti e forniti dall’utente, è possibile non solo conoscere il suo modello mentale, bensì conoscere l’utente in persona.
Come spiega Nathalie Nahai (2017), attraverso la mappatura del comportamento online è possibile ricostruire la personalità, l’età, il genere e la cultura del target di riferimento, analizzando e incrociando ricerche online, profili social, link seguiti nella navigazione internet e interazioni con altri utenti. Rispondere al modello del target di riferimento, e risultare per questo persuasivi, significa dunque progettare un’interfaccia in cui valori, identità grafica, segni linguistici e iconografici siano fluenti, ovvero di immediata decodifica mentale. Qualsiasi contenuto, se presenta una forma visivamente chiara (percettivamente fluente), fonologicamente semplice (linguisticamente fluente) e semanticamente chiara (concettualmente fluente) viene percepito come credibile.
A questo punto potremmo chiederci come fa un social network come Facebook, che conta 2,2 miliardi di persone iscritte nel mondo, ad acquistare la credibilità degli utenti attraverso la sua interfaccia grafica. Fogg e Iizawa (2008) spiegano che l’interfaccia grafica di Facebook adotta una serie di trucchi per stimolare le interazioni e rendere la piattaforma fluida, usabile e interattiva agli occhi degli utenti. Uno dei trucchi di Facebook è quello di stimolare le persone alla creazione di profili interessanti, nuovi e diversi, in modo che gli utenti siano sempre motivati a scoprire qualcosa in più sulle persone che fanno parte della propria community.

È per questo che l’interfaccia di Facebook, fin dal momento dell’iscrizione, spinge gli utenti a rilasciare informazioni personali e sensibili come l’orientamento religioso e sessuale, il numero di telefono e lo stato di coppia. Inoltre, la piattaforma ricorda spesso agli utenti, anche tramite notifica, di aggiornare la foto del profilo o la copertina del proprio diario. Un altro escamotage che il social network utilizza per convincere gli utenti a costruire nuove connessioni tra loro è quello di suggerire le persone che si potrebbero conoscere, attraverso un meccanismo di rimandi interno alla stessa community, per cui se si è amici di amici, c’è un’alta probabilità di stringere nuove reti sociali online.

Spingere gli utenti ad avere connessioni sempre nuove è uno degli obiettivi di Facebook, che in questo modo ha la possibilità di aumentare le interazioni tra gli utenti che lo rendono attraente e moltiplicano il desiderio di aprire l’app per per controllare gli aggiornamenti provenienti dalla cerchia di amici. Facebook guida le azioni degli utenti con Calls To Action (CTA) chiare e definite, indirizzate a un’azione precisa e circostanziata nello scopo, come “Scrivi un commento”. Questi messaggi, spesso correlati a icone oppure a moduli online da riempire, presentano un linguaggio semplice e diretto e sono disposti in posizioni prominenti a fine o inizio pagina. Le CTA vengono scritte con verbi all’imperativo, esortando a compiere quell’interazione in cambio di un beneficio.

L’interattività promossa da Facebook si snoda attraverso molteplici spazi di azione per gli utenti. A partire dal messaggio iniziale “Ciao! A cosa stai pensando?” in testa alla finestra, il meccanismo del vedi-e-punta infonde una sensazione di azionabilità dell’applicazione che sembra trasferire il controllo nelle mani dell’utente, quando è il social stesso a spingere gli utenti a compiere le azioni richieste.

Le storie di Facebook, mutuate da Instagram (che a sua volta le ha mutuate da Snapchat), sono un’altra delle funzionalità principali utilizzate da Facebook per stimolare l’interattività degli utenti. Suscitando curiosità all’interno della community di riferimento, le storie conteggiano le visite al profilo e al contenuto prodotto così da offrire un impulso ulteriore a generarne di nuove che possano aumentare le visualizzazioni da parte di amici e follower.

Il meccanismo di feedback, teorizzato nelle linee guida Apple del 1984, viene ripreso da Facebook attraverso il sistema di reazioni correlate a un post. Un contenuto può piacere, non piacere, far arrabbiare, far piangere, far sorridere o lasciare sorpresi, può essere commentato.

Il processo innesca dialoghi, dibattiti e soprattutto alimenta un sistema di notifiche che si manifestano nello smartphone e appaiono nella testata dell’applicazione basandosi di fatto sulla logica che informava i popups delle pagine di un sito web o degli avvisi delle applicazioni del personal computer: finestre che compaiono in sovrapposizione alla generale per un periodo limitato di tempo e che contengono messaggi rilevanti per gli utenti. I popups sono una declinazione della tecnica “pattern interrupt“, ovvero l’interruzione del flusso di pensieri degli utenti per spostare e focalizzare l’attenzione sul messaggio contenuto nel popup.
In conclusione, possiamo sostenere che il sistema della credibilità su Facebook sia supportato da un’interfaccia finalizzata a creare e stimolare la creazione e la condivisione di contenuti e le interazioni degli utenti con lo scopo di farli rimanente all’interno di una piattaforma applicativa che si autolegittima in sé, attraverso le proprie regole di ingaggio, come attendibile e degna di fiducia da parte degli iscritti. Come spiega infatti Mohamed A. Fadl Elhadidi (2019), un messaggio condiviso su Facebook viene spesso recepito attraverso fonti multiple che comprendono ri-condivisioni e re-posting che allentano i legami con la fonte originaria del messaggio. A quel punto però, i meccanismi di feedback dell’app sono già intervenuti per assegnare, attraverso le reazioni, un indice di credibilità al messaggio, che emerge nelle bacheche e nelle cerchie degli utenti grazie al “punteggio” di like, condivisioni e commenti. Si può affermare dunque che sono proprio le azioni di condivisione e feedback, stimolate senza sosta dalle chiamate all’azione dell’interfaccia della social app, a legittimare la credibilità della piattaforma, prima ancora dei suoi contenuti.
Bibliografia
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