Digitalizzazione della conoscenza: un conflitto di classe?

Il 29 e 30 giugno 2017 si svolgerà a Granada, in Spagna, il convegno internazionale Territorios Digitales, al quale parteciperò con una relazione dal titolo ¿Porqué la digitalización del conocimiento es un problema geopolítico? (“Perché la digitalizzazione della conoscenza è un problema geopolitico?”). L’evento si collega al gruppo #CSHDSUR (vedi qui) e al progetto Knowmetrics. Anticiperò qui alcune delle tematiche che affronterò nel mio intervento a Granada e che ho approfondito in un articolo che uscirà a breve in un libro-piattaforma online: Playlist! Humanidades y Ciencias Sociales Digitales desde el Sur; il volume è curato, fra gli altri, da David Domínguez Herbón e Miriam Peña della Red de Humanidades Digitales de México.

Le questioni principali che cercherò di affrontare nel mio contributo sono: 1) le diseguaglianze (sociali, linguistiche, economiche, ecc.) nell’accesso alle tecnologie, agli strumenti e alle applicazioni sulle quali si basa oggi la diffusione e gestione della  conoscenza; 2) la sempre più nociva concentrazione in poche mani di gran parte di questi  strumenti e tecnologie; 3) l’imponente oligopolio anglo-europeo dell’editoria scientifico-accademica;  4) la minaccia che tutte queste concentrazioni (non solo di proprietà, ma di codici e di linguaggi) costituiscono per la diversità linguistico-culturale.

Senza la consapevolezza di queste problematiche (strettamente intrecciate), qualsiasi digitalizzazione rischierà di consolidare e rafforzare i divari e le diseguaglianze a livello sociale, economico, politico, culturale e tecnologico.

Chi guida oggi la digitalizzazione della conoscenza? Quali (e quanti) sono i modelli, gli standard e le organizzazioni che la rappresentano e la gestiscono? Chi parla, da dove parla e perché? Tentare di rispondere a queste domande significa inevitabilemente sollevare la questione della sovranità epistemologica di tutte le aree geografiche fuori dell’anglosfera, ovvero porre alla comunità globale delle Digital Humanities un problema di ordine geopolitico.

Nonostante tutti gli sforzi fatti in questi anni, la maggior parte degli strumenti intellettuali nel campo delle DH è tuttora in mano anglo-europea: la conferenza annuale (prima eccezione sarà DH2018), il sito web (solo in inglese), la mailing list Humanist, la rivista monolingue Digital Scholarship in the Humanities (prima Literary and Linguistic Computing), le monografie più o meno finanziate (come i Companions). Senza contare software, linguaggi, e i cosiddetti “standard”, come la Text Encoding Initiative. Oltre a ciò non si riflette mai abbastanza su quella microfisica della transazioni comunicative che va dalla lingua in cui sono condotte le riunioni degli organismi (vedi i verbali disponibili online esclusivamente in inglese) fino ai meccanismi di ricompensa e gratificazione, profondamente radicati nel sistema culturale angloamericano ed europeo, e che vengono imposti come ‘standard’ in ogni contesto sociale e comunicativo. Perché mai dunque i colleghi anglofoni dovrebbero rinunciare a questo enorme capitale, per dirla con Bourdieu, di “potere simbolico”?

A proposito di capitale, nei colleghi nordamericani, anche in coloro che sottolineano la mancanza di un approccio critico alle DH, sembra operare, soprattutto riguardo all’egemonia storica delle proprie forme espressive e produttive (dalla lingua alle forme organizzative e retoriche della scienza e della tecnologia, ecc.), una rimozione che ricorda quella descritta da Karl Marx nel primo libro del Capitale. Nell’Etica Nicomachea (libro V) Aristotele analizza le forme di valore e si chiede perché cose tanto diverse, come per esempio “cinque letti e una casa” possano essere commensurabili, ovvero avere lo stesso valore. E tuttavia qui l’analisi di Aristotele, osserva Marx, si arresta “e rinuncia all’ulteriore analisi della forma di valore”. Perché? Qual è la “sostanza comune”, “quell’eguale” che unisce i cinque letti e la casa? La risposta di Marx è: il lavoro umano. Eppure nemmeno il genio di Aristotele poteva afferrare il concetto di lavoro, giacché in lui operava la rimozione della sua stessa società, quella greca, fondata sul lavoro servile: semplicemente quel lavoro non esisteva. In modo simile i digital humanist anglofoni (ma in realtà quasi tutti gli accademici che lavorano e operano nei grandi centri anglo-europei della ricerca), dall’alto di istituzioni che godono di visibilità e dotazioni finanziarie incommensurabili rispetto al resto del mondo, rimuovono costantemente dai loro discorsi “critici” l’immenso vantaggio, materiale e simbolico, del quale godono[1]. Il loro vantaggio equivale a un surplus di lavoro per tutti coloro che non hanno il privilegio di nascere, essere educati e lavorare in una centrale epistemica dell’anglosfera. Il risultato, spesso paradossale, è che gran parte del lavoro umano intellettuale di coloro che non ricevono uno stipendio da Berkeley, New York, Boston, Chicago, Cambridge, Oxford, ecc. risulta totalmente oscuro e dunque irrilevante. Ma il punto è proprio questo: la “rilevanza”, per parafrasare Paulo Freire, può essere solo il prodotto di un accordo fra dominato e dominatore. La rimozione od oblio da parte del privilegiato dei propri privilegi è condizione necessaria ma non sufficiente. Se Scopus o Web of Science decidono quali riviste indicizzare, il problema non sono gli indici, ma anche la nostra subalternità a (o complicità con) tali rappresentazioni.

Occorre constatare che le scienze sociali, in particolare la sociologia, discutono di queste tematiche da tempo, non solo formulando critiche e analisi, ma avendo la lucidità di rovesciare le visioni “ricevute”:

“An intellectual revolution against the provinciality of social science has begun. The premise of this revolution is that disciplinary sociology’s concerns, categories and theories have been formulated, forged, and enacted within Anglo-European metropoles in the interest of those metropolitan societies, and so a new “global sociology” that transcends this provinciality is necessary. The institutional dimension of this project involves a critical reconsideration of the inequalities between the wealthy universities of the United States and Europe and the poorer institutions in the Global South.” (Julian Go, 2016)

Le Digital Humanities, dunque, non hanno solo bisogno di più cultural criticism, ma di più politica. Iniziando per esempio dal sostenere una battaglia per l’estensione dei concetti di libertà, diritti e democrazia alle nostre tracce digitali, considerandole a tutti gli effetti un’estensione della nostra cittadinanza – ovvero dei nostri corpi, delle nostre identità, delle nostre lingue e delle nostre memorie.

[1] Nemmeno (soprattutto?) in accademia il luogo da dove si parla è neutro rispetto a ciò di cui si parla, come ci ricorda Eileen Joy in questo bellissimo e pugnace contributo.